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Relazione introduttiva al Convegno sul tema "Cibo Terra Acqua Sostenibilità. Quale futuro per 10 miliardi di persone" svoltosi a Roma, presso la Biblioteca del Senato, il 31 maggio 2012, per iniziativa della Rivista "l'albatros"
Gentili ospiti,
lo squilibrio che sempre più si sta determinando tra risorse e popolazione, intrecciandosi coi cambiamenti climatici, la crisi energetica e l’arresto della crescita economica, mette in discussione la capacità del nostro pianeta di soddisfare l’imponente domanda di cibo. Questa situazione, per certi versi inedita nella modernità, potrà essere fronteggiata se si affermerà una consapevolezza della gravità dei problemi che sono esplosi e si avvierà pertanto un cambiamento nelle coscienze individuali, nella società civile organizzata, nella politica, nel sistema della conoscenza e nella responsabilità degli Stati che dovranno coordinare politiche sempre più complesse a livello globale.
La complicazione sta nel fatto che la democrazia è rimasta un fenomeno nazionale e una rete istituzionale per affrontare questi problemi non può essere disegnata mediante deliberazione democratica al livello di un singolo Paese, anche il più potente. La rete va, pertanto, disegnata e costruita attraverso accordi tra Stati sulla base di proposte che la società civile e la politica devono saper elaborare in una dimensione globale.
Affronterò il tema partendo da una descrizione sommaria di tre elementi che mi sembrano essenziali per un suo inquadramento: 1) le cause dell’insicurezza alimentare che grava su di un terzo della popolazione mondiale e interessa i paesi del Sud del mondo; 2) l’evoluzione dell’agricoltura e della ruralità nei paesi industrializzati; 3) i dilemmi delle politiche agricole europee alla vigilia della loro ridefinizione. Passerò poi ad elencare una serie di misure e di azioni su cui gli Stati hanno avviato un confronto per determinare una politica globale del cibo. E concluderò con l’indicazione di alcune questioni su cui occorrerebbe produrre dei cambiamenti culturali negli individui e nella società per fare in modo – per dirla con Enzo Rullani – che i processi moltiplicativi della modernità non continuino ad erodere i beni comuni ma siano resi coerenti con una modernità sostenibile. Decisivo è a mio avviso il ruolo delle relazioni interpersonali e di quell’intelligenza unica e fuori standard di ciascun individuo che sono state svalorizzate e sostituite dagli automatismi. Imprescindibile è la funzione delle culture che si sono accumulate nel tempo e che riguardano il rapporto tra popolazione e risorse e la gestione dei beni comuni in connessione stretta coi legami sociali.
Cibo e insicurezza alimentare
Per affrontare la prima questione – quella relativa alle cause dell’insicurezza alimentare – vorrei ricordare che le grandi organizzazioni mondiali intendono per sicurezza alimentare“l’accesso sicuro e costante a cibo sufficiente per condurre una vita in buona salute”. Nella Costituzione dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) il concetto di salute è definito come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”. Per star bene ognuno di noi ha, dunque, bisogno di quelle duemila calorie al giorno senza le quali ci si ammala. Ma l’assunzione di calorie sufficienti è la base minima per star bene, non è ancora la condizione per conseguire lo stato di benessere fisico, psichico e sociale. Solo associando l’assunzione del cibo alla soddisfazione sensuale, alla convivialità e ai legami comunitari in cui il cibo assume valori simbolici fondamentali, si potrà dare un senso pieno al concetto di “vita in buona salute”.
E tuttavia prima ancora che il cibo possa essere assunto, bisogna creare le condizioni perché le popolazioni accedano ad esso in modo sicuro e costante. E’ per questo che la sicurezza alimentare ha a che fare con lo sviluppo umano e con il tenore di vita di individui e comunità.
Nei paesi occidentali consumiamo circa 2.900 calorie. Circa un terzo della popolazione mondiale non raggiunge però le duemila calorie e il 30 per cento di quel terzo di popolazione (925 milioni di persone) dispongono di meno di 1.500 calorie, il che vuol dire che soffrono la fame e moriranno precocemente per inedia.
La cifra è più che doppia rispetto a quella menzionata negli obiettivi del primo Summit Mondiale dell’Alimentazione, che nel 1996 proponeva di ridurla a 420 milioni entro il 2015. Il numero delle persone denutrite ha, dunque, ripreso a crescere. E di queste, il 65 per cento vive in soli sette paesi: India, Cina, Repubblica Democratica del Congo, Bangladesh ed Etiopia.
Qual è la causa fondamentale di questo regresso, del riacutizzarsi del problema dell’insicurezza alimentare? E’ la povertà, definita da Amarthia Sen come “l’assenza o l’incapacità tecnico-sociale-politica di raggiungere uno standard di vita socialmente accettabile”.
L’insicurezza alimentare è, nel contempo, causa ed effetto della povertà e del sottosviluppo: il benessere nutrizionale delle fasce povere di popolazione non è soltanto una conseguenza dello sviluppo ma un suo presupposto.
La povertà si è aggravata con la rapida sequenza e sovrapposizione di più fenomeni tra loro collegati: 1) il tasso di crescita demografica superiore al tasso di crescita della produttività agricola; 2) i cambiamenti climatici, che rendono meno assorbibili gli incidenti ambientali estremi come siccità, incendi, inondazioni e dissesti; 3) la fiammata dei prezzi internazionali dei prodotti agricoli e dell’energia; 4) la speculazione finanziaria sul cibo; 5) la corsa all’accaparramento della terra; 6) l’impoverimento delle risorse idriche.
1) La popolazione mondiale aumenta ad un ritmo superiore alla crescita della produzione agricola. Nel 2050 supererà i 9 miliardi di persone. Un terzo in più rispetto ai 6,9 miliardi che ora abitano il pianeta. Già tra meno di 20 anni ci sarà un miliardo in più di persone nei paesi poveri e in quelli emergenti.
Oggi la popolazione mondiale è equamente distribuita per il 50 per cento nelle città e per il 50 per cento nelle campagne. Nel 2050 la quota delle aree urbane raggiungerà il 70 per cento con una concentrazione di grandi agglomerati nell’area asiatica.
Sicché, la Fao sostiene che per venire incontro alla domanda di cibo di una popolazione in crescente aumento e che sarà più ricca e più urbanizzata, la produzione agricola per usi alimentari dovrà aumentare del 70 per cento entro il 2050.
2) Il riscaldamento globale da qui al 2100 porterà a un innalzamento medio della temperatura tra 1,4 e 5 gradi. Questo significa che l’agricoltura sarà in molte aree del pianeta più vulnerabile agli stress idrici, più esposta alla frequenza degli eventi calamitosi estremi (siccità e inondazioni) e all’azione dei parassiti e degli altri agenti patogeni. Inoltre, l’agricoltura influenza a sua volta il clima, in quanto responsabile delle emissioni di gas serra.
3) I prezzi degli alimenti non solo hanno avuto un aumento ma sono stati interessati anche dal cosiddetto fenomeno della “volatilità”, che si verifica quando la frequenza e l’ampiezza delle variazioni dei prezzi registrate in un dato arco temporale sono superiori alle medie storiche.
Quali sono le cause di questa instabilità turbolenta dei mercati agricoli?
Quella principale è la lievitazione della domanda di petrolio, una risorsa necessaria allo sviluppo economico dei paesi emergenti. L’aumento della domanda di combustibile nell’ultimo periodo ha reso generalmente più costoso l’utilizzo di questa fonte energetica per: a) impiegare le macchine nei processi produttivi agricoli; b) creare la base chimica nella produzione di fertilizzanti e pesticidi; c) trasportare le derrate.
Un’altra causa dell’ascesa dei prezzi delle commodity agricole è il mutamento dei modelli di consumo nelle fasce più ricche della popolazione dei paesi emergenti. Sulle loro tavole è ora la carne ad abbondare e il conseguente aumento della domanda di pollame, bovini, suini, ecc. non è senza conseguenze. Per allevare questa grande quantità di animali è, infatti, necessaria una notevole produzione di mangime, a cui segue l’aumento della domanda di grano e di altri cereali.
Un ulteriore motivo d’innalzamento dei prezzi degli alimenti è la crescita delle superfici, precedentemente dedicate a coltivazioni alimentari, per produrre bietole e canna da zucchero da utilizzare poi nella produzione di biocarburanti, e la destinazione di grano e mais a questo nuovo uso, diverso da quello alimentare.
4) Un aspetto inquietante dei meccanismi che determinano il rialzo dei prezzi agricoli e, dunque, le condizioni di povertà è la speculazione finanziaria sulle derrate agricole.
Se anche gli operatori dei mercati mondiali agricoli delle borse merci, alle prese con una inedita volatilità dei prezzi, chiedono di regolamentare i mercati finanziari a livello globale e per ora si sono autoregolamentati, significa che la situazione è davvero assai rischiosa.
5) Dagli inizi del Duemila in poi, società private, governi e fondi sovrani di tutto il mondo stanno acquisendo terreni su larga scala destinati alla produzione di alimenti e biocarburanti nei paesi in via di sviluppo. Si stima che siano stati oggetto di negoziazione nel mondo dai 50 agli 80 milioni di ettari, di cui oltre i due terzi nell’Africa subsahariana (Etiopia, Sudan e Mozambico).
L’aumento dei prezzi delle derrate agricole e i timori di una nuova scarsità alimentare hanno favorito fortemente l’espandersi del fenomeno. Accaparrarsi la terra significa garantirsi la produzione di colture ad uso alimentare ed energetico. Si tratta di una pressione commerciale su questo bene comune che coinvolge anche settori come il turismo, l’attività estrattiva, lo sfruttamento delle foreste, il controllo delle risorse idriche.
Questo aumento della domanda di terra rivolta prevalentemente verso il Sud del mondo è sicuramente un rischio, da monitorare con grande attenzione perché può provocare un innalzamento dei livelli di povertà, ma, qualora venisse regolato, aprirebbe spiragli interessanti per affermare modelli d’investimento in agricoltura diversi e quanto mai necessari.
6) Infine, l’acqua diventa sempre più una risorsa scarsa. Essa è un bene comune fondamentale per conseguire lo sviluppo dell’agricoltura e assicurare condizioni di vita dignitose alle popolazioni, soprattutto quelle più povere.
La parte più cospicua di questa risorsa è costituita dalle acque del mare che ricoprono il 71 per cento della superficie del pianeta. Oltre a svolgere un ruolo fondamentale nella regolazione del clima e a costituire il nodo più importante nel ciclo dell’acqua sulla Terra, il mare ha da sempre rappresentato un’importante fonte di sostentamento per l’umanità.
Molte comunità costiere hanno basato la propria ricchezza sulla pesca, che è divenuta nel tempo parte integrante del loro tessuto storico-culturale. Per quanto riguarda il nostro Paese, il Direttore della nostra rivista “l’albatros”, Agostino Bagnato, è autore di una interessantissima opera – pressoché unica nel suo genere – in cui si racconta la vicenda del mare e dei pescatori e il suo stretto legame con la storia d’Italia.
Oggi siamo in presenza di un drastico impoverimento della vita nel mare dovuto all’intensa attività di pesca, in parte illegale, all’inquinamento e al degrado dell’ambiente marino.
Inoltre, l’acqua pone gravi problemi di competizione tra i diversi usi. Ed è soprattutto l’aumento degli usi urbani e industriali ad aver creato la pressione commerciale sulla risorsa. La crescita delle aree metropolitane nei Paesi emergenti sta riducendo notevolmente la disponibilità d’acqua per l’irrigazione delle campagne.
Infine, la gestione impropria dell’acqua d’irrigazione in zone aride si traduce in impaludamento e salinizzazione delle terre, in un incremento delle malattie legate all’acqua e in una riduzione della biodiversità. Tutti effetti che determinano minore disponibilità di cibo.
Cibo e sviluppo agricolo nei Paesi industrializzati
Illustrate sommariamente le cause dell’insicurezza alimentare che interessa i paesi del Sud del mondo, vediamo adesso come evolvono l’agricoltura e la ruralità nei paesi industrializzati.
Lo sviluppo agricolo che si è realizzato negli Usa, in Europa e in Giappone ha risolto il problema dell’autosufficienza alimentare di questi paesi, almeno a partire dagli anni Sessanta, e ha indotto la modernizzazione sociale ed economica della parte di mondo in cui noi viviamo, ma ha determinato al tempo stesso anche gravi contraddizioni.
La surrogazione di un’economia rigenerativa della natura (economia contadina) con un’economia dissipativa della tecnica (utilizzo massiccio di sostanze chimiche) ha provocato il saccheggio della fertilità storica dei terreni agricoli e ha dato vita al fenomeno dell’erosione.
Il luogo dove si produce il cibo, un tempo habitat salubre per eccellenza, è diventato una delle fonti dell’inquinamento globale dell’aria, dei laghi, dei fiumi e dei mari.
L’attività umana che originariamente ha dato vita ai primi insediamenti comunitari, si è trasformata in un’attività produttiva che erode capitale sociale e ricchi patrimoni culturali, saperi secolari legati alla qualità dei cibi e alla custodia del territorio.
Mentre un miliardo di persone sono denutrite, un terzo del cibo prodotto a livello globale, vale a dire 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, viene perso o sprecato con un inutile consumo delle risorse impiegate per produrlo e con un altrettanto non necessario rilascio di anidride carbonica. Se si considera che la perdita di materia edibile per cittadino in Europa e in Nord America ammonta a 280-300 chili l’anno, mentre nell’Africa sub-sahariana e nel Sud-est asiatico a 120-170 chili, è facile dedurre che non si tratta solo di inefficienza produttiva ma anche di insostenibili stili di vita e di consumo nei paesi ricchi.
L’attuale condizione, in alcune aree del mondo, di sovrabbondanza di cibo sta determinando disturbi di vario tipo, come l’obesità e l’anoressia. Cresce sempre più il numero di persone in condizione di soprappeso, che costituisce una concausa nelle patologie arteriosclerotiche e cardiovascolari e nel diabete che sopravviene in età matura. Solo in Italia sono 18 milioni.
Negli Stati Uniti l’obesità è responsabile di un numero di morti che oscilla tra i 280.000 e i 350.000 all’anno.
Ma dopo mezzo secolo di ricerche e dopo aver speso centinaia di migliaia di dollari per demonizzare i grassi nell’alimentazione, la scienza della nutrizione non è riuscita a provare che una dieta con pochi grassi può aiutare a vivere a lungo; e questo perché di fronte a fatti così complessi come quelli che caratterizzano la nutrizione, non ci è concesso di affidare l’indagine a un solo ramo del sapere. Occorre, in sostanza, mettere insieme più discipline e assumere un approccio olistico per fronteggiare la malattia. E questo ancora non si fa.
L’anoressia è, invece, una malattia mentale che si accompagna ad una vera e propria propaganda volta a diffonderla tra le nuove generazioni. E’ forse l’unico caso di apologia di un morbo. Ci sono, infatti, decine di siti web che incitano i giovani al controllo totale del cibo come mezzo di autoaffermazione.
Inoltre, il mondo della moda adotta modelli di bellezza che si fondano sull’idea dell’essere magri a tutti i costi. I mezzi di comunicazione di massa hanno assunto come valori esclusivi della nostra società la bellezza e l’efficienza fisica e diffondono questo messaggio con un’aggressività e volgarità senza misura. Si è in tal modo verificata una sorta di saldatura tra modelli culturali di vita e forme patologiche. Non a caso l’anoressia è presente solo nei paesi ricchi.
Cibo e nuova ruralità
Mentre lo sviluppo agricolo produce queste gravi contraddizioni, nonché disagi e disturbi di vario genere, compare in Europa, negli anni Settanta, un fenomeno che è stato definitonuova ruralità. Va riconosciuto a Corrado Barberis il merito di aver studiato per primo e più di altri questo fenomeno.
La nuova ruralità inizia a prendere forma quando un’altra grande crisi, che precede quella che stiamo vivendo, incrocia la nuova rivoluzione tecnologica e fa sì che il modello di sviluppo adottato qualche decennio prima, mostri le prime avvisaglie della propria insostenibilità.
Siffatto fenomeno si manifesta in modo differenziato a seconda delle tradizioni della ruralità. La nuova ruralità continentale è prevalentemente conservazionistica e ricreativa perché fa leva su di una tradizione rurale di tipo naturalistica e agraria. Esprime il riemergere di bisogni ancestrali legati alle relazioni uomo-terra e uomo-cibo che si erano determinate nell’ambito di assetti comunitari e di forme collettive di utilizzazione delle risorse naturali, considerate da tempi immemorabili come beni comuni.
La nuova ruralità mediterranea si pone, invece, in continuità con una tradizione che si caratterizza per una maggiore integrazione tra città e campagna, nonché per una diffusa presenza di pratiche civili comunitarie, di attività plurime e di economie informali. Essa non si manifesta come nostalgia di un lungo ciclo rurale ormai giunto a compimento e di cui serbare la memoria valorizzandone le vestigia. Ma è difatti una tradizione che permane nella modernità come un insieme sia di attività in più settori, sia di soggetti sociali di diversa estrazione e provenienza, legati tra loro da relazioni di tipo collaborativo. Una tradizione che la cultura legata al modello sociale prevalente nei paesi industrializzati ha considerato per un lungo periodo retaggio ingombrante di cui liberarsi e che oggi incomincia di nuovo ad essere apprezzata e rivitalizzata per le sue virtù.
La ruralità contemporanea è visibile osservando alcune novità nelle relazioni tra città e campagne: la rurbanizzazione, i consumATTORI e le comunità di cibo.
a) La rurbanizzazione è un fenomeno che riguarda sia lo spostamento di singoli individui e gruppi dalle città nelle aree periurbane e rurali alla ricerca di stili di vita e forme dell’abitare meno stressanti e più sostenibili, sia la crescita di attività agricole e rurali meno industrializzate e più legate a logiche di competizione di tipo cooperativo.
Questi neo-contadini si rendono oggi protagonisti di una mutazione antropologica delle campagne: da “non luoghi” dove operano sistemi agroalimentari delocalizzati e predatori, che ricercano ovunque nel mondo materie prime a minor costo, a “luoghi” dove si rigenera un’agricoltura relazionale e di territorio. Il loro obiettivo non è produrre cibo in sé, ma produrlo in un certo modo per ottenere beni relazionali e ambientali capaci di soddisfare bisogni collettivi.
Si opera una sorta di capovolgimento dei mezzi in fini, per ristabilire un ordine di priorità che si era smarrito con la modernizzazione agricola: è l’uomo coi suoi bisogni e le sue aspirazioni più profonde e sono i beni comuni, relazionali e ambientali, che si riproducono i fini dell’attività economica, mentre il processo produttivo, il prodotto e la sua scambiabilità sono soltanto i mezzi per perseguirli.
È in tale quadro evolutivo che si stanno sperimentando nuovi modelli di welfare e di efficienza energetica nelle aree metropolitane. Ad esempio, a Corviale di Roma, si è avviato un percorso di progettazione territoriale “dal basso” legata alle varie forme di agricolture civili, dalle fattorie sociali ai centri ippici e alle asinerie, fino alle abitazioni con orti sui tetti in serre ricoperte da fotovoltaico, che Stefano Panunzi ha studiato.
L’innovazione tecnologica che si lascia permeare dall’innovazione sociale, potrebbe aprire una nuova fase della bonifica integrale, in cui un inedito terziario agricolo – di cui Franco Paolinelli ci parla da un decennio – inverdisce il cemento, lasciando cadere in frantumi le mura di cinta che hanno separato per millenni la città dalla campagna.
È quel “continuum urbano-rurale policentrico e molteplice” che Franco Ferrarotti ha trovato tornando nelle periferie romane quarant’anni dopo la sua famosa indagine sociologica degli anni Sessanta.
b) I consumATTORI costituiscono una particolare tipologia di consumatore che vuol essere partecipe del progetto con cui si crea il prodotto agricolo e non semplicemente spettatore passivo nel teatro del marketing; vuole, in sostanza, essere un co-protagonista che interagisce con il produttore. Egli non si limita ad informarsi sui diversi prodotti, guardare l’etichetta e acquistare passivamente il bene in qualunque punto vendita. Vuole, invece, partecipare attivamente al rapporto di scambio dopo essersi aggregato, anche informalmente, in gruppi di acquisto.
La comparsa di questo nuovo soggetto permette di sperimentare strategie di impresa fondate sulla competitività cooperativa (co-opetition). Si agisce sul mutuo aiuto e sul reciproco vantaggio dei soggetti che partecipano allo scambio di mercato mediante modelli di governance allargata e percorsi partecipativi. In sostanza, produttori e consumatori operano come un team per raggiungere obiettivi comuni in grado di avvantaggiare tutti i partecipanti dello scambio economico.
c) Le comunità di cibo si creano intorno alle attività legate alla cultura del cibo locale (km zero, farmer’s market, agricoltura hobbistica, orti urbani, presidi di prodotti tradizionali, agriturismo e ittoturismo). Si tratta di esperienze che rischiano di chiudersi in una logica di autosufficienza e di inaridirsi se non si ha l’ambizione di agire in una dimensione globale, costruendo reti sempre più ampie in un’ottica cooperativa e di scambio culturale.
Una delle idee fondanti delle comunità di cibo è che piacere e salute non vanno intesi in modo conflittuale ma nel segno dell’alleanza e del reciproco vantaggio.
L’idea che il piacere sia salutare, che ciò che piace fa bene è un’idea-base della dietetica antica. Essa nasce dalla convinzione che i messaggi del corpo, che ci spingono a desiderare un cibo piuttosto che un altro, servono a riconoscere, attraverso la piacevolezza del gusto, la qualità degli alimenti di cui il corpo ha bisogno.
Le relazioni tra motivazione, piacere dei sensi e assunzione alimentare danno luogo a un complicato intreccio: fabbisogno, desiderio, piacere nascono all’interno di reti neurali che si sovrappongono le une alle altre. Ma non tutto si risolve affrontando la sola dimensione fisica: per ottenere uno stato di effettivo benessere, bisogna modificare il contesto in cui le persone agiscono e le relazioni che l’individuo ha con il mondo esterno. Da qui nasce il bisogno di allargare il discorso sul cibo agli elementi simbolici perché il cibo è cultura.
Oggi non è ancora un dato acquisito che il cibo sia anche piacere e che il piacere del cibo sia un diritto di tutti. Per secoli i ceti dominanti hanno preferito immaginare il piacere come loro esclusivo privilegio. Includere, pertanto, il diritto al piacere tra gli obiettivi alimentari delle prossime generazioni ha a che fare con l’ampliamento delle libertà degli individui.
Il cibo è un fondamentale strumento di identità culturale che non si oppone al villaggio globale. La diffusione di modelli alimentari globalizzati, come quello di McDonald’s e dei suoi concorrenti, paradossalmente ha eccitato la ricerca della diversità, la ricostruzione di radici più o meno inventate, la riscoperta o reinvenzione delle tradizioni locali. Il corpo sociale ha elaborato un formidabile antidoto al rischio dell’omologazione culturale. Mettere in rete le culture locali, diffonderle, farle conoscere, condividerle è stata la risposta positiva a questo rischio. Utilizzando il villaggio globale come luogo di scambio anziché di omologazione. Globalizzando la biodiversità gastronomica e culturale.
La cultura economica delle civiltà cresciute attorno al Mediterraneo è cultura della mescolanza, dell’ibridazione, della contaminazione. Questa parte del mondo è una realtà geografica dotata di elementi comuni, legati al clima e al paesaggio, ma su questo fondo comune si sono sviluppate civiltà, lingue, tradizioni (anche alimentari) diverse. Ciò che storicamente ha contraddistinto il Mediterraneo è stata semmai la vocazione (favorita dalla brevità dei tragitti da est a ovest, da nord a sud) a costituirsi come area comune di scambio tra uomini, prodotti, culture. Ecco il punto: l’identità mediterranea esiste solo nello scambio, nella messa in comune delle diversità naturali. Come scrive Massimo Montanari, l’identità mediterranea nasce dalla storia più che (oltre che) dalla geografia.
Quella che, troppo semplicemente, oggi ci siamo abituati a chiamare dieta mediterranea è un’astrazione che solo in parte corrisponde a questa storia. E’ un modello costruito a tavolino, a cominciare dagli anni Cinquanta, per motivi e per scopi ben precisi, di carattere medico-sanitario: trovare un correttivo alla dieta eccessivamente proteica e calorica dei popoli ricchi. Guai a mummificare questo modello in una prescrizione igienica. Sarebbe negare in radice l’assunto culturale su cui si fonda.
La lezione che ci viene dalla storia è di pensare il sistema alimentare non come una realtà semplice, dettata dalla “natura” dei luoghi, bensì come una costruzione complessa, legata ad una cultura, ad uno stile di vita che i popoli del Mediterraneo hanno imparato a condividere, a modificare, a creare giorno dopo giorno. E’ forse questa modalità che noi dovremmo offrire alle altre parti del mondo come un percorso utile di confronto e integrazione delle diverse culture alimentari.
Si tratta di abbandonare la visione statica di un’italianità legata esclusivamente alla conservazione di determinati prodotti (difesi con marchi collettivi, etichettature, riconoscimenti Unesco e relative politiche di marketing) e di spingere, invece, verso un’innovazione intesa come affermazione di nuove idee per soddisfare bisogni sociali e creare continuamente mercati fondati su relazioni interpersonali. Aver rinunciato alla creatività pensando di vivere di rendita per le cose fatte in passato è all’origine del nostro declino.
La nostra tradizione va sempre rivitalizzata con dinamicità e in modo innovativo proprio per restare fedeli ai suoi caratteri peculiari. E una siffatta italianità, fondata sull’innovazione sociale e sul saper fare, è una grande risorsa soprattutto ora che, nei Paesi emergenti, entrano in scena milioni di nuovi consumatori che stanno modificando la propria dieta alimentare.
I produttori di quei Paesi imitano i nostri prodotti come abbiamo fatto noi nei millenni passati. E non ci saranno tribunali speciali a cui appellarci. Dobbiamo convincerci che la competitività da perseguire non dovrà essere tanto di tipo posizionale (come in una gara sportiva), quanto di tipo cooperativo, dovendo strutturare in modo organizzato, a livello sia locale che globale, bisogni sociali dal lato della domanda a cui far corrispondere un’adeguata capacità di organizzare l’offerta.
Si tratta di scambiare nei mercati globali non solo merci, ma culture alimentari, pratiche civili comunitarie legate all’agricoltura e alla pesca, modelli di welfare e di tutela dei beni comuni, tecnologie verdi, per produrre innovazione sociale continua. Ecco la sfida per le comunità di cibo del futuro!
Cibo ed evoluzione della Pac
Se si guarda a siffatti scenari, la proposta di riforma della Pac, confezionata dalla Commissione europea per il periodo di programmazione 2014-2020, è ancora poco coerente coi problemi posti dall’insicurezza alimentare nei Paesi del Sud del mondo e da quelli della nuova ruralità mediterranea.
Circola in diversi ambienti europei la tesi molto discutibile secondo la quale tutte le aree del mondo dovrebbero concorrere a produrre più cibo per fronteggiare la nuova era della scarsità. In sostanza, l’insicurezza alimentare viene presa a pretesto per giustificare un nuovo ciclo di politiche agricole protezionistiche nei paesi ricchi al fine di produrre più derrate agricole.
Questa soluzione è del tutto contraddittoria con gli obiettivi che, invece, dovrebbero perseguire i paesi in via di sviluppo per fronteggiare la loro insicurezza alimentare. La quale non è dovuta tanto alla scarsità di cibo ma alla scarsità degli investimenti per risolvere il problema dell’accesso al cibo.
I sussidi agli agricoltori dei paesi industrializzati generano distorsioni nei mercati internazionali. E le vittime principali sono gli agricoltori dei paesi in via di sviluppo che si vedranno sempre più tagliati fuori dai mercati delle derrate agricole. Oliver De Schutter, relatore speciale Onu sul diritto al cibo, ha dichiarato recentemente: “L’Europa ha aperto le porte alle esportazioni del mondo in via di sviluppo, ma questa apertura è inutile se i piccoli agricoltori del Sud non possono vendere i loro prodotti alimentari nei loro mercati interni. Dobbiamo aiutare i paesi a basso reddito a non dipendere dalle importazioni a basso prezzo ma a ricostruire i loro sistemi alimentari. Non dobbiamo dar loro da mangiare, ma aiutarli a nutrirsi. Se la produzione alimentare aumenta con una ulteriore marginalizzazione dei piccoli agricoltori nei paesi in via di sviluppo, si perde la battaglia contro la fame e la malnutrizione”. Non poteva essere più netta la presa di posizione contro il falso teorema che sottende il neoprotezionismo della proposta di riforma della Pac.
Proposte per una governance globale del cibo sostenibile
A questo punto della mia esposizione elencherò alcune proposte che potrebbero dar vita, qualora si realizzassero, ad una governance globale del cibo. Si tratta di approcci concreti a singoli problemi su cui si sta tentando una condivisione innanzitutto a livello di società civile, ma anche nel confronto tra gli Stati.
Al summit di Cannes del 3 novembre 2011, la presidenza francese del G20 si è impegnata per favorire un accordo globale sulla sicurezza alimentare. Il Piano di azione sulla volatilità dei prezzi alimentari e sull’agricoltura, predisposto dai ministri dell’agricoltura del G20 a Parigi nei giorni 22-23 giugno 2011, ha soltanto iniziato a mettere mano ad una strategia di riforma, tra reticenze e contraddizioni.
Nonostante le sollecitazioni del CESE (Comitato economico e sociale europeo), che aveva organizzato a Bruxelles il 23 maggio 2011 la conferenza internazionale Cibo per tutti. Verso un accordo globale, l’Unione europea non ha svolto alcuna funzione di stimolo al dibattito. Neanche l’Italia, alle prese con le continue emergenze, ha fornito un contributo nelle sedi internazionali, sebbene il Senato avesse discusso il tema e approvato, nella seduta del 16 giugno 2011, mozioni che affrontavano organicamente i suoi vari aspetti.
La mobilitazione della società civile dovrebbe premere affinché si vada più a fondo con una urgenza indilazionabile per raggiungere i seguenti obiettivi, su cui vi sono analisi e riflessioni abbastanza condivise: 1) ridurre la povertà nei paesi in via di sviluppo mediante il sostegno all’agricoltura; 2) dar vita ad una nuova organizzazione dei mercati agricoli e finanziari; 3) intensificare gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo; 4) regolare la nuova domanda di terra; 5) sperimentare nuove forme civili di gestione dell’acqua; 6) coordinare i sistemi d’incentivazione delle fonti energetiche rinnovabili; 7) rendere coerenti le politiche agricole e commerciali con il diritto all’alimentazione.
1) Sostenere l’agricoltura dei paesi in via di sviluppo significa privilegiare i mercati locali e regionali e incentrare le azioni sulle popolazioni rurali presenti sul territorio.
Gli interventi internazionali sotto forma di massicci aiuti alimentari ai paesi in via di sviluppo possono stravolgere i mercati locali e pregiudicare la sicurezza alimentare degli stessi produttori agricoli. Si dovrebbero, invece, favorire le capacità delle persone e delle comunità locali di accrescere il benessere individuale e sociale, creando domanda e offerta di istruzione di qualità, domanda e offerta di protezione dei diritti civili e politici. Una particolare attenzione andrebbe rivolta all’elevazione della condizione delle donne sia per valorizzare le loro capacità innovative in agricoltura, sia per correggere il tasso di fecondità.
2) Creare una nuova organizzazione dei mercati agricoli e finanziari è un impegno che dovrebbe partire dalla registrazione di tutte le transazioni e le posizioni degli operatori. Parallelamente, andrebbe creata una maggiore trasparenza dei mercati fisici, soprattutto per quanto riguarda i livelli di risorse e di scorte, nonché dell’offerta e della domanda a breve e medio termine. Ci vorrebbe, inoltre, una regolamentazione “uniforme” a livello internazionale per i mercati finanziari anche per evitare la concorrenza tra le “piazze” finanziarie. Bisognerebbe, infine, tornare a creare delle scorte di intervento, ma da gestire a livello mondiale.
3) Intensificare gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo è una delle condizioni ineliminabili per combattere la fame e riprendere la crescita. Del resto, non è mai stata confutata la teoria per cui Robert Solow fu insignito del Nobel per l’economia nel 1987: in ultima istanza, sono sempre le idee, sostenute dalle tecnologie dell’invenzione, che promuovono quegli elementi che cambiano la qualità della vita.
Vediamo il problema dell’aumento della produzione nelle agricolture dei Paesi in via di sviluppo può avvenire in due modi. Tale aumento può avvenire in due modi: ampliando le superfici coltivabili o accrescendo la loro produttività. La prima strada appare preclusa perché le terre migliori sono già tutte coltivate e restano quelle marginali oppure quelle impegnate dall’attuale patrimonio forestale, la cui riduzione non è affatto auspicabile. Resta la strada dell’aumento della produttività. Ma abbiamo due limiti da superare: a) utilizzare meno input chimici in agricoltura perché si è potuto constatare che l’uso prolungato di sostanze chimiche determina una perdita di fertilità dei suoli; b) accrescere la produttività con altri ritrovati tecnologici diversi dalle sostanze chimiche.
Al momento è l’ingegneria genetica ad essere ritenuta dalla comunità scientifica il sentiero tecnologico che può permettere di raggiungere maggiori livelli di produttività agricola e, al tempo stesso, di salvaguardare meglio le risorse naturali. Mentre quello delle nanotecnologie è un percorso indispensabile per un uso razionale dell’acqua ad uso irriguo. Ma le innovazioni tecnologiche sono soltanto un aspetto dell’innovazione sociale che deve produrre cambiamenti nella cultura e nei comportamenti mediante approcci olistici, interdisciplinari e di autoapprendimento collettivo.
Una ragione di ottimismo per il futuro è che salute, istruzione e diritti si comportano come il reddito pro capite, nel senso che dipendono dall’innovazione. Questa riesce a diffondersi globalmente anche in paesi con redditi bassi, che possono così godere di migliori condizioni di vita senza dover aspirare a livelli economici irrealistici.
4) Regolare la nuova domanda di terra è il modo per promuovere un accesso equo e sicuro a questo bene comune. Occorre provvedervi nella prospettiva dei diritti più che degli investimenti attraverso il dialogo e la condivisione delle conoscenze. Si tratta di costruire nell’immediato un centro di monitoraggio sulle acquisizioni di terra su larga scala e sul loro impatto dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.
5) Sperimentare nuove forme civili di gestione dell’acqua è il percorso più efficace per ottenere un uso sostenibile delle risorse idriche. Tale percorso può riconnetterci alle antiche forme di gestione dei beni collettivi, valorizzando l’economia civile, il Terzo settore e l’azionariato diffuso. Si tratta di uscire dal dilemma statalismo/multinazionali, recuperando la migliore tradizione dei consorzi di bonifica e irrigazione e rivitalizzandola per tutti gli usi della risorsa acqua.
6) Coordinare gli incentivi per la produzione delle agroenergie è necessario per trovare il giusto equilibrio tra il bisogno di disporre di questo bene a basso costo per la ripresa economica, la necessità di uno sviluppo sostenibile, a cui la produzione di agroenergie può dare un contributo, e l’esigenza di assicurare il diritto al cibo, che mal si concilia con la sottrazione di terreno fertile per finalità energetiche.
7) Rendere coerenti tutte le politiche agricole con il diritto al cibo è, infine, l’impegno che gli Stati delle diverse aree del mondo dovrebbero assumere e concretizzare con coerenza.
Se il problema dell’insicurezza alimentare interessa davvero le istituzioni europee, come viene proclamato in diversi documenti ufficiali, c’è un modo per dimostrarlo in concreto: spostando una parte delle risorse destinate ai sussidi diretti ai nostri agricoltori, agli investimenti in ricerca e in aiuti volti a sostenere la capacità delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo a investire nelle loro agricolture.
Gli agricoltori europei non hanno bisogno di grandi risorse per sostenere i propri redditi, ma di ridistribuirle in modo più equo tra grandi e piccoli produttori e tra aree forti ed aree deboli, agganciando i sussidi alla produzione di beni comuni, ambientali e relazionali.
Le campagne europee e in particolare quelle mediterranee hanno estrema necessità di politiche che puntino allo sviluppo territoriale, all’ammodernamento del welfare, al miglioramento della qualità della vita nelle aree rurali, all’edificazione di sistemi agroalimentari in grado di interagire coi nuovi mercati nei paesi emergenti, nonché alla valorizzazione del contributo dell’agricoltura di servizi alla vivibilità delle aree urbane.
Il paradosso di dover liberalizzare i mercati e, nello stesso tempo, proteggere gli agricoltori si può risolvere solo in un modo: con liberalizzazioni e protezioni a geometria variabile. I paesi più poveri dei nostri hanno bisogno, per un certo periodo, di proteggersi dalle importazioni dei nostri prodotti agricoli e puntare al proprio sviluppo autoctono. E noi dovremmo dichiararci disponibili a favorire queste legittime e irrinunciabili esigenze.
I paesi industrializzati, invece, qualora le crisi alimentari dovute ai prezzi alti del cibo colpissero le fasce povere della propria popolazione, non dovrebbero nutrirle producendo di più localmente.
Già ora sono a rischio alimentare oltre 50 milioni di persone negli Stati Uniti e 43 milioni in Europa. Ma la soluzione del problema non sta nel produrre di più in questi paesi, bensì nell’allestire adeguati sistemi di welfare che prevengano il rischio di impoverimento delle persone oppure che le sostengano in caso di necessità.
Il bilancio comunitario andrebbe, pertanto, riequilibrato in tale direzione: meno sussidi agricoli e più politiche per regolare i mercati agricoli e finanziari e stabilizzare i prezzi; meno misure protezionistiche e più interventi per l’occupazione, il welfare e l’innovazione sociale. E lo stesso discorso vale per il Farm Bill americano, anch’esso ancora configurato come un intervento fortemente protezionistico.
Bisognerebbe poi essere più coerenti nel regolare il commercio mondiale. Un commercio regolato è quello che integra nelle sue dinamiche decisionali ed applicative i principi e le prassi del diritto all’alimentazione. Gli Stati, le cui popolazioni soffrono una condizione di denutrizione, dovrebbero astenersi dal contrarre obblighi internazionali in contrasto con tali principi per non andare contro i loro popoli. L’Europa e gli Stati Uniti dovrebbero, da parte loro, promuovere questo approccio verso gli altri stati membri del WTO, per fare in modo che la sicurezza alimentare diventi una vera e propria clausola di salvaguardia negli accordi internazionali.
Per tenere vivo il dibattito pubblico su questi sette problemi bisognerebbe cogliere ogni opportunità che si presenta. La preparazione di Milano Expo 2015, dedicato al tema “Nutrire il pianeta”, è dunque un’occasione da non perdere per organizzare in modo razionale e produttivo la trattazione di queste tematiche con il coinvolgimento di istituzioni, organizzazioni della società civile, mondo della conoscenza.
I cambiamenti culturali necessari per una modernità sostenibile
Affrontare questi sette problemi concreti è quanto dovrebbero fare gli Stati se la politica se ne occupasse in modo costante con un’elaborazione e una costruzione di soggetti politici di dimensioni sovranazionali. Ma c’è una responsabilità che fa capo a ciascuno di noi in quanto cittadini e in quanto società civile e ci sono doveri individuali e collettivi da adempiere perché nessuna persona potrà vivere e sopravvivere senza volerlo, senza operare la sua rivoluzione, così come nessuno potrà fare la rivoluzione senza sopravvivere. Come diceva il Mahatma Gandhi: “Siate voi stessi il cambiamento che volete vedere nel mondo”.
Tra i beni comuni investiti da processi dissipativi vanno considerati i beni relazionali (reciprocità, mutuo aiuto, gratuità, fiducia, ecc.) e non solo le risorse naturali (terra, acqua, aria, strato dell’ozono, ecc.).
L’erosione dei beni relazionali è tra le cause dell’attuale crisi economica e finanziaria ma anche dell’arretramento delle basi civili delle nostre società industrializzate, la cui spia si è accesa all’improvviso con la violenza gratuita verso i più fragili, i giovani. Assuefatti alla logica utilitaristica, siamo rimasti sconcertati per l’attentato di Brindisi perché non vogliamo ammettere che anche il male, come il bene, può essere gratuito. Ma l’agguato, per il modo come è stato compiuto e per le persone colpite e altre ancora che si intendevano colpire, è la spia che siamo giunti al livello di guardia della tenuta dei legami sociali.
Né lo Stato né il mercato possono fare granché dinanzi ad eventi come questi, perché sia l’uno che l’altro non sono istituti primordiali, ma frutto dell’iniziativa di persone che vivono in società. E’ dunque la società civile il luogo dove si può rigenerare quel capitale sociale che costituisce il presupposto per la nascita e il corretto funzionamento del mercato e delle istituzioni. Una nuova società civile diversa da quella plasmata dagli Stati nazionali e dall’approccio utilitaristico all’economia di mercato. Una nuova società civile che si sta organizzando nelle reti e che mette in discussione i vecchi modelli corporativi della rappresentanza, forgiati dall’economia fordista e dal vecchio stato sociale messo irrimediabilmente in discussione agli inizi degli anni Ottanta, quando i Paesi che lo avevano adottato decisero di non finanziare più il deficit dei loro bilanci con l’emissione di moneta. Reti trasversali di cittadini e non più organizzazioni di categorie, settori, professioni, mestieri o aggregazioni di portatori di bisogni speciali (disabili, non autosufficienti, anziani, ecc.) o ancora associazioni di consumatori contrapposte a quelle dei produttori. Sono queste reti d’incontro, di partecipazione e di autoapprendimento collettivo, il “luogo” dove s’addensa una nuova società civile.
Per poter rivitalizzare i beni relazionali e la capacità di questa nuova società civile di produrli, occorre recuperare dalla triade della Rivoluzione Francese (liberté, egalité, fraternité) il terzo pilastro: la fraternità, da non confondere con la solidarietà. Una fraternità dei moderni da distinguere nettamente dalla fraternità degli antichi, che era fondata sui legami di suolo e di sangue. Una fraternità dei moderni che va oltre quella delle appartenenze nazionali, dei legami di classe e di ceto, delle affiliazioni ideologiche e religiose. Una fraternità dei moderni che dovrà essere civile, universalistica, da fondare su di un nuovo civismo nell’economia e nella società.
Ci siamo adeguati un po’ tutti al modello utilitaristico e individualista e ci siamo abituati a reprimere e a non riconoscere la diversità altruistica che c’è dentro ciascuno di noi, fonte di una fragilità che c’imbarazza. Ma solo se saremo in grado di accettare questa diversità in noi, saremo in grado di riconoscerla negli altri e di costruire una nuova appartenenza fondata sul riconoscimento reciproco delle nostre fragilità e su nuove comunità umane aperte all’altro, senza più mura di cinta invalicabili da difendere, ma solo piccole siepi da varcare liberamente.
Mancando le libertà individuali e operando in territori circoscritti, nelle società tradizionali i beni comuni erano usati sulla base di consuetudini imposte alle persone in modo autoritario dalle comunità. Oggi, in presenza delle libertà individuali e della dimensione globale dei beni comuni ogni ricorso ad un potenziale Leviatano si rivela insufficiente senza far leva sui beni relazionali. Tali beni emergono spontaneamente nelle relazioni di mercato e permettono di rivitalizzare quel sistema paritario dello scambio che – secondo la lezione di Fernand Braudel ribadita recentemente da Giorgio Ruffolo in una ricostruzione storica della moneta – fu sostituito, con l’avvento degli Stati nazionali, da un’economia fondata sui rapporti di forza, sul “diritto del più forte”, in sostanza dall’attuale modello capitalistico.
Si tratta di prendere coscienza che abbiamo un solo pianeta. Ora è provato che non basterebbe questo pianeta se tutti i popoli assumessero il nostro modello alimentare. Occorre, dunque, un cambiamento culturale che coinvolga le nostre convinzioni più intime, i nostri stili individuali di vita e i nostri modelli di produzione e consumo per ridurre l’uso di sostanze chimiche nei processi produttivi agricoli; contenere la produzione e il consumo di proteine animali; arginare gli sprechi; ridurre l’uso dell’acqua; considerare l’accesso all’alimentazione e il piacere del cibo un diritto di tutti; scambiare le culture alimentari per aprirci agli altri.
Dovremmo anche dismettere un atteggiamento di diffusa avversione verso la scienza, dettato spesso da timori egoistici, e considerare, invece, il livello delle competenze e delle capacità cognitive scientifiche e tecniche un criterio non meno importante di quelli normalmente ritenuti necessari per la nascita e la sopravvivenza di una democrazia liberale e non dispotica. Se l’autonomia e l’autodeterminazione sono i valori davvero in grado di garantire un efficiente funzionamento delle regole democratiche – scrive Gilberto Corbellini – solo la diffusione della scienza è in grado di sviluppare negli individui e nelle comunità il senso di autonomia, plasmando i comportamenti e i valori civili che consentono di controllare democraticamente la sostenibilità delle premesse su cui si reggono i processi moltiplicativi della modernità.
L’apertura verso la scienza è, dunque, fondamentale per assumere pienamente la responsabilità, com’è decisivo che la nostra civiltà si faccia sempre più carico delle altre specie viventi. Nei nuovi equilibri evolutivi che si stanno determinando sull’onda dei cambiamenti delle grandi strutture antropologiche che regolano i rapporti tra gli esseri umani, si stanno spostando le frontiere dell’etica, fino a comprendervi tutto il vivente che ci circonda. Aldo Schiavone prevede che, fra qualche tempo, l’idea di mangiare carne animale susciterà non meno orrore di quel che oggi ne provochi l’esperienza della schiavitù. Ridurre perciò la produzione e il consumo di proteine animali significa non solo garantire la disponibilità di cibo ad un maggior numero di persone, ma anticipare in qualche modo anche comportamenti alimentari che saranno propri delle generazioni future.
L’atto del mangiare è un fattore altamente veicolante di pratiche e dispositivi culturali, che fornisce una rappresentazione dei mondi altri. Più ancora della parola, il cibo si presta a mediare tra culture diverse aprendo i sistemi di cucina ad ogni sorta di invenzioni, incroci, sincretismi, ibridismi e contaminazioni. Conoscere le culture alimentari di un gruppo e scambiare i cibi può, dunque, costituire una pratica che favorisce l’integrazione in contesti sempre più multietnici, come quelli europei, e un veicolo per diffondere nel mondo l’idea di alimentazione sostenibile e di piacere del cibo come diritto di tutti.
È utopia tutto questo? Paolo Sylos Labini diceva che lo scetticismo nei confronti di percorsi innovativi spesso nasconde, in chi lo manifesta, una grande cura del proprio particulare e, nonostante le proclamazioni in contrario, un’assai scarsa preoccupazione per l’interesse pubblico. E ripeteva una metafora che aveva sentito durante una lezione di Joseph Schumpeter: “Non c’è nulla di così impercorribile come una strada che una lunga schiera di pellegrini, passandosi la voce l’un l’altro ma senza percorrerla, dichiarano impercorribile”.Chi riesce a non farsi suggestionare dagli altri può scoprire, con sorpresa, che la strada è, bensì, lunga e faticosa, ma che gli ostacoli non sono affatto insuperabili.