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Gli orti sociali in Italia

Il fenomeno si colloca in quel terziario civile innovativo che sta emergendo in questi ultimi decenni sia nelle città che nei territori rurali: un terziario agricolo avanzato che contribuisce a trasformare le forme dell'abitare, i modelli comunitari e i sistemi socio-economici territoriali. Comprenderne l'antefatto nella lunga durata può essere utile per stabilire regole e modalità adatte al nostro Paese

orti urbani

Parlare di orti sociali nella realtà italiana significa riferirsi ad una pluralità di fenomeni – sia nelle aree urbane che in quelle rurali – che hanno al centro la cura e la coltivazione di piccoli appezzamenti di terra a fini di autoconsumo.  Si tratta di fenomeni distinti ma intrecciati sul piano storico e socio-antropologico perché derivano tutti dalla cultura agricola e dal modo come i gruppi umani, passando dall’attività primaria verso altre attività e dalle aree rurali verso le città, hanno conservato e rielaborato la tradizione di produrre in proprio ortaggi, frutta, fiori e altre piante commestibili a fini di autoconsumo personale e familiare.

Oggi tali forme evolvono tutte verso una sorta di terziario agricolo avanzato, sia nelle aree rurali che nelle medie e grandi città. E incontrano molte difficoltà nel trovare un inquadramento giuridico perché, muovendosi nell’ambito di economie che mettono al centro il benessere delle persone e le relazioni, incrociano le problematiche tipiche del terzo settore e dell’economia civile: applicazione scorretta del principio di sussidiarietà orizzontale da parte delle istituzioni, scarsa valorizzazione della dimensione volontaria e gratuita dello scambio economico, difficoltà nelle relazioni tra volontariato e impresa sociale, riluttanza a riconoscere nell’economia civile l’impresa profit che adotta strategie di responsabilità sociale, ecc.

Per muoversi con maggiore consapevolezza, sul versante della regolamentazione pubblica di detti fenomeni ancora in fase pioneristica e sperimentale, sarebbe bene tener conto che queste modalità di fare agricoltura non sono un fatto recente, bensì nascono nella notte dei tempi. Già il vecchio coltivatore tarantino, cantato da Virgilio nelle Georgiche, “piantando pochi ortaggi fra gli sterpi / e intorno bianchi gigli e verbene e fragili papaveri / uguagliava nell’animo le ricchezze del re e, tornando a casa / a tarda sera colmava la mensa di cibi non comprati”. Se non si tiene conto del retroterra culturale di queste esperienze e dei modelli sociali tradizionali che informavano la gestione dei sistemi territoriali e dei domini civici, si rischia di soffocarne le potenzialità e la carica innovativa in pastoie stataliste e burocratiche e in nuove specializzazioni e separatezze.

L’antefatto

Emilio Sereni distingue il paesaggio agrario italiano definendolo “verticale”, rispetto alla “orizzontalità” che domina nei paesaggi europei, segnati dall’estesa presenza delle pianure. E in effetti i terrazzamenti e le varie forme di utilizzo delle aree collinari hanno fornito una fisionomia di “agricoltura arrampicata” alle nostre coltivazioni.  La particolare conformazione fisica dei nostri territori ha influenzato i rapporti di produzione, favorendo la creazione di determinati sistemi sociali. I quali, a loro volta, per iniziativa cosciente e sistematica dell’uomo, hanno impresso al paesaggio naturale una forma che, nel tempo, lo ha caratterizzato. La mezzadria e la colonia hanno costituito per secoli le forme contrattuali con cui gran parte del territorio centro-meridionale è stato tenuto a coltura salvaguardando la sua produttività. I sistemi sociali che quei contratti supportavano hanno garantito per secoli l’equilibrio tra territori, risorse e popolazioni. Nel 1910 l’agricoltura italiana non era meno produttiva di quella inglese, anzi la produttività della terra nel nostro Paese superava quella raggiunta in Gran Bretagna sia in termini di prodotto lordo per ettaro, sia in termini di valore aggiunto.

Il sistema mezzadrile era dato dal singolo podere isolato in mezzo alla campagna; da una dimora più grande, talora una vera e propria villa, che poteva essere l’abitazione permanente o semplicemente estiva del proprietario, dalle fattorie intese come centri di servizi, e dai centri abitati (borghi o villaggi). Nel podere isolato abitava il mezzadro, in conformità a un contratto di durata annuale tacitamente rinnovabile, con funzioni sia produttive, per l’autosostentamento alimentare e per ripagare in natura il proprietario, sia di manutenzione e sistemazione idraulico-agraria del territorio. Nel centro abitato c’era il mercato di sbocco dei prodotti agricoli, ai cui flussi non erano estranei i mezzadri, e c’erano le relazioni con altri soggetti sociali, economici e istituzionali. Il perno su cui ruotava il sistema territoriale era la fattoria, dove si concentravano i servizi amministrativi e tecnici, quelli di conservazione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti,  e i servizi sociali per i dipendenti (abitazioni, mense, ecc.).

Il sistema del latifondo meridionale era, invece, dato dai minuscoli fondi in mezzo alla campagna, dal casino baronale che fungeva da residenza estiva del proprietario, dalla masseria come centro servizi e dal borgo o paesone, dove abitavano tutti e dove si organizzavano i rapporti con il mercato.

La differenza tra i due sistemi era principalmente questa: la famiglia mezzadrile abitava nel podere, mentre quella colonica abitava nel paesone, dove il contadino poteva organizzare meglio il proprio lavoro nei numerosi fazzoletti di terra dispersi nel territorio, dedicarsi anche ad altre attività e da dove raggiungeva il demanio civico per acquisire ulteriori risorse (acqua, legna, ortaggi, erbaggi per gli animali, ecc.) per il fabbisogno familiare.

Sia il podere mezzadrile che la rete di minuscoli fondi colonici erano strutture economiche che garantivano l’autosufficienza alimentare della famiglia contadina. Ed erano collocati in sistemi sociali territoriali che garantivano quei servizi organizzativi, tecnici e socioeconomici , necessari per svolgere le funzioni produttive, di valorizzazione dei prodotti per il mercato e di cura del territorio. Sul piano giuridico, i contratti di mezzadria e di colonia parziaria erano definiti “contratti associativi per la coltivazione della terra” o “contratti agrari associativi”.  Essi erano caratterizzati da prestazioni bilaterali convergenti allo scopo comune della coltivazione del fondo, il quale si realizzava a mezzo del comune godimento dei beni organizzati per l’esercizio dell’attività agricola, della comunione del rischio e della comproprietà dei frutti. Tali contratti sono stati ritenuti giustamente incompatibili con gli assetti sociali che si sono prodotti a seguito dei processi di modernizzazione.  Sono stati, pertanto, vietati dall’articolo 45 della Legge 3 maggio 1982, n. 203 e oggi sono del tutto scomparsi. Ma con quei sistemi sociali territoriali si sono, per un lungo periodo, formati e conservati gli assetti comunitari e i paesaggi agrari storici del nostro Paese. E come osserva icasticamente lo storico della mezzadria, Sergio Anselmi, tali contratti “hanno resistito a lungo perché sono convenuti sia ai padroni che ai contadini”. Le conseguenze del loro superamento sono evidenti se si osserva l’evoluzione dei paesaggi collinari negli ultimi sessanta anni. Alla trama degli antichi campi di grano o granturco, circondati da fossi di prima e seconda raccolta e racchiusi dalle alberate di viti alte e basse, di olivi, di alberi da frutto sono subentrati i seminativi nudi con rischi notevoli in termini di dissesto idrogeologico.

L’autoconsumo contemporaneo

Oggi sopravvivono decine e decine di migliaia di piccoli appezzamenti di terra destinati perlopiù all’autoconsumo familiare, come eredità di quei sistemi territoriali storici. Essi potrebbero rivitalizzarsi qualora riuscissimo a reinventare, in forme moderne, quella tradizione. In che modo? Imperniando un nuovo sistema a rete su tre elementi: i fazzoletti di terra, le imprese agricole di servizi alle persone e alle popolazioni (masserie e fattorie sociali) e i centri abitati come luoghi dove i vari soggetti della nuova ruralità possano interagire e rapportarsi  con l’economia mondo.

Questi piccoli appezzamenti vedono coinvolto il 41 per cento della popolazione italiana. Si tratta di persone impegnate in altre attività – da cui ricavano il proprio reddito – oppure sono pensionati che hanno svolto precedentemente lavori in settori diversi dall’agricoltura. La superficie interessata da questa forma di utilizzo dei terreni agricoli è ancora oggi una parte consistente del paesaggio agrario del nostro Paese.

Il nostro ordinamento non annovera nell’agricoltura questa particolare attività di cura e coltivazione della terra. Il codice civile dà, infatti, rilievo giuridico esclusivamente alle attività svolte dall’imprenditore agricolo.  Secondo il codice civile l’imprenditore è chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Un’attività economica acquista rilievo giuridico se ha come fine ultimo il mercato. Non avendo come sbocco il mercato, questa attività agricola non ha rilevanza giuridica ma resta comunque un’attività economica. E i rapporti giuridici che nascono da strutture produttive finalizzate all’autoconsumo sono comunque regolati dai principi e dalla disciplina generale del diritto agrario, ma solo che non si potrà loro applicare ciò che è proprio della disciplina dell’impresa. In altri termini, i piccoli appezzamenti di terra su cui si svolge un’attività agricola finalizzata all’autoconsumo non sono imprese agricole, ma costituiscono pur sempre rapporti giuridici agrari. Per quanto riguarda la concessione dei terreni da parte di chi ne detiene la proprietà (pubblica, privata o collettiva) ad altri soggetti, non è applicabile la normativa sui contratti agrari ma solo il comodato d’uso, il quale però non ha l’impianto collaborativo, aperto cioè ad apporti diversificati, peculiare dei vecchi contratti agrari associativi, vietati per legge.  E le regole sulla sicurezza alimentare e la tutela ambientale, dal momento che sono calibrate per le imprese, difficilmente si adattano a chi svolge un’attività agricola non imprenditoriale.

La cultura economica e le istituzioni solo negli ultimi tempi stanno prestando attenzione all’apporto di tali attività alla composizione dei consumi alimentari familiari, al consumo di mezzi tecnici e di servizi professionali necessari per svolgerle, alla promozione dello spirito civico e di comunità, alla salvaguardia del territorio e al benessere psico-fisico delle persone.

Eppure, sono proprio queste forme di agricoltura le attività che meglio ci fanno rivivere la concezione del lavoro che esisteva nel mondo contadino. Secondo la cultura rurale il lavoro non era, infatti, considerato una merce in quanto non aveva valore economico. Lavorare voleva dire riuscire a mangiare ogni giorno ma anche vivere in salute, dormire di notte e svegliarsi di buon’ora con energia ed entusiasmo. Lavorare significava curare le risorse naturali per riprodurle e rigenerarle a vantaggio delle generazioni successive. Lavorare, inoltre, voleva dire non avere troppi “grilli per la testa”, cioè vivere con sobrietà e serietà morale. Lavorare, infine, non doveva mai trasformarsi in forme prolungate di sfruttamento bestiale, a cui i contadini sapevano opporre una resistenza passiva e sottrarsi ricorrendo a volte anche all’astuzia, finché non arrivò il tempo delle lotte organizzate e delle conquiste sociali. Lavorare e vivere con la terra era tutt’uno.

Questa concezione del lavoro fu alla base non solo del salto imprenditoriale compiuto da tanti contadini italiani negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, quando al sopraggiungere di talune condizioni indotte dalle politiche economiche dell’epoca dettero vita all’agricoltura moderna, ma anche delle centinaia di distretti industriali per iniziativa di tanti mezzadri che si fecero imprenditori e operai specializzati nei settori manifatturieri. E siffatta cultura è rimasta nel codice genetico di quei tre milioni di contadini meridionali che tra la metà degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Settanta trasferirono la propria residenza in un comune del Nord.

Dedicando una parte significativa del nostro tempo libero alla cura dell’orto, del vigneto, del frutteto, dell’alveare o dell’allevamento di animali da cortile, scegliamo non solo di mangiare cibo fatto con le nostre mani e di stare meglio in salute, ma di continuare a coltivare l’idea atavica che vuole il lavoro agricolo come unica risorsa capace di arrestare ogni forma di degrado umano, impedire alle popolazioni di regredire nella miseria più nera e guardare alla vita con fiducia.

È per questo che quando vediamo le immagini o sentiamo i racconti di sfruttamento schiavistico, a danno degli immigrati, nelle nostre campagne, siamo presi da un forte senso di ripulsa. Consideriamo ripugnante ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo ma ci disgusta soprattutto quella che viene praticata in agricoltura.

Se noi oggi continuiamo ad apprezzare ogni lavoro e, nello stesso tempo, ricerchiamo anche tutto ciò che possa migliorare la qualità e la consapevolezza della nostra vita, lo dobbiamo alla concezione del lavoro che avevano i nostri antenati delle comunità rurali. Quando curiamo un ciliegio senza l’assillo di dover venderne i frutti a prezzi convenienti, ma solo per il piacere di fare un regalo unico agli amici, rivitalizziamo la civiltà del lavoro delle tradizioni rurali.

Le attività su piccoli appezzamenti, svolte da coloro che comprano beni e servizi dalle imprese del territorio per fare agricoltura di autoconsumo, sono presenti non solo nei piccoli centri, dove i protagonisti sono prevalentemente i proprietari dei minuscoli fondi coltivati, ma anche nelle medie e grandi città, dove i protagonisti sono i fruitori di un servizio su fondi organizzati e assegnati perlopiù da amministrazioni pubbliche e, negli ultimi anni, anche dalle imprese agricole e dalle cooperative sociali che operano nell’ambito dell’agricoltura sociale.

La tradizione degli orti urbani

Per capire il rinnovato interesse per la cura e la coltivazione degli orti nelle medie e grandi città (orti urbani), bisogna tornare indietro con gli anni. Prima dell’età industriale, ad ogni fase di crescita urbana ha corrisposto una proporzionata crescita del patrimonio verde e dei campi a coltura. Gli orti erano piuttosto comuni in tutte le medie e grandi città. Con l’avvento dell’industrializzazione  e la conseguente espansione delle città, l’equilibrio ha incominciato a rompersi e i campi coltivati nelle aree urbane e periurbane hanno teso a restringersi. Sono stati i nuovi arrivati dai territori rurali a tentare di contenere lo squilibrio.

In Italia, già nella seconda metà dell’Ottocento, i processi migratori delle aree rurali verso le città erano accompagnati dalla reinvenzione della tradizione degli orti negli interstizi dei grandi complessi edilizi urbani; una tradizione che costituiva la modalità con cui i contadini diventati operai restavano legati in qualche modo alla loro cultura originaria ed evitavano gli effetti alienanti della vita di fabbrica. Spesso erano le aziende o gli istituti delle case popolari a promuoverli per soddisfare un bisogno di comunità che la vita urbana tendeva a sfaldare. Il fenomeno era nato in Germania, per iniziativa di amministrazioni comunali e piccoli industriali impegnati ad affrontare il problema della povertà. Questi orti erano stati chiamati Armengärten (orti dei poveri) perché i lotti venivano assegnati ai poveri e ai senza tetto. A Lipsia i Kleingärten erano, invece, riservati ai bambini. Ma la peculiarità di tali pratiche era emersa in Francia coi jardins ouvriers (giardini operai) sorti dall’attività di mons. Jules Lemire, non solo uomo di chiesa, ma anche professore e politico di grande statura.

Negli anni Trenta del Novecento venivano poi promossi gli orticelli di guerra, nel quadro della “battaglia del grano” e della ruralizzazione degli italiani che Mussolini perseguiva. Anche l’America conosceva l’esperienza dei relief gardens (orti di soccorso) e durante la seconda guerra mondiale quella dei victory gardens (orti della vittoria).

Dopo la guerra e fino al boom economico, in tutti i paesi occidentali gli orti urbani subiscono un declino perché sono considerati una vera anomalia. L’orto in città diventa il simbolo di una condizione sociale ed economica inferiore, un elemento di degrado paesaggistico. E questo appannamento dura fino agli anni Settanta, quando, in tutte le grandi metropoli statunitensi e canadesi, nascono i primi community gardens (orti di comunità). Con tali iniziative, alcuni gruppi di cittadini incominciano a recuperare zone abbandonate a se stesse, degradate e fatiscenti, per riportarle a nuova vita. Anche in Italia si reinventa ancora una volta la tradizione degli orti allocati all’interno del tessuto urbano, che non appartengono a chi li coltiva, ma sono proprietà comunali occupate abusivamente o assegnate a cittadini che ne fanno richiesta.

In questa nuova primavera dell’agricoltura urbana c’è una maggiore diversificazione dei fruitori dell’orto. Non solo operai, ma anche impiegati, insegnanti, professionisti e, soprattutto, pensionati. Inizialmente non è un fenomeno associativo o promosso da aziende e amministrazioni pubbliche, ma sono iniziative individuali, disorganiche, spesso abusive, mal tollerate se non apertamente disprezzate e osteggiate dagli abitanti dei quartieri in cui si trovano. Il declino degli orti urbani, che si era verificato tra la seconda metà degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Settanta, era dipeso dall’imperante esecrazione per ogni forma di economia domestica, ma anche dalla nascita di altri modi di impiegare il proprio tempo libero. Non solo la televisione ma anche le ferie. Alla rispettabilità sociale e familiare conferita da un orto o un giardino ben tenuto, si era sostituita quella del “mese al mare”, ovviamente incompatibile con il mantenimento di un orto.

Prove di terziario civile innovativo nelle città

Con l’avvento della nuova ruralità, indotta da una domanda diversificata di servizi da parte di coloro che vivono nelle aree urbane, e dunque del processo di terziarizzazione dell’agricoltura come aspetto fondamentale della sua multifunzionalità, si vanno diffondendo nuove pratiche di orti urbani. I protagonisti non sono più soltanto gli anziani, bensì le giovani coppie con figli. Gli interessi che spingono questi nuovi “ortisti” sono svariati: dalla voglia di sperimentare nuovi processi produttivi (agricoltura biologica e biodinamica, permacoltura, ecc.) alla lavorazione del legno ricavato dagli alberi di città per autocostruire manufatti e utensili di uso comune, dal compostaggio alla realizzazione di orti condominiali sui tetti, dall’educazione alimentare e ambientale all’ortoterapia. L’espandersi dell’interesse per l’agricoltura sociale ha suscitato un’attenzione nuova verso gli orti urbani da parte delle scuole e dei centri socio-sanitari. Nell’ambito dei servizi alle comunità delle fattorie sociali incominciano ad essere allestiti anche gli orti urbani.

Svariate sono, dunque, le tipologie di orti urbani che si vanno realizzando. Qui si elencano le principali:

  1. orti organizzati da fattorie sociali su terreni propri, suddivisi in parcelle assegnate ad ortisti;
  2. orti organizzati su proprietà comunali affidate dai comuni ad associazioni, gruppi o scuole che li utilizzano in modo indiviso oppure ripartendoli in parcelle a disposizione dei singoli soci ortisti;
  3. orti organizzati direttamente dai comuni su propri terreni e assegnati ad ortisti che ne facciano richiesta;
  4. orti organizzati all’interno di scuole, istituti di pena, centri salute su terreni propri utilizzati, direttamente o in collaborazione con organizzazioni esterne, a fini educativi, terapeutici e riabilitativi.

Come si può notare, in queste diverse tipologie ci sono sempre due figure: quella dell’ortista e quella dell’organizzatore dell’attività. L’ortista è un cittadino che non ha come fine il compimento di un’attività rivolta al mercato, bensì l’esercizio di un’attività composita, il cui aspetto produttivo confluisce e si conclude nell’autoconsumo. E per poter realizzare un’attività di questo tipo, diventa fruitore, consapevole ed esperto, di un servizio. La motivazione  che lo spinge riguarda esclusivamente la ricerca di benessere psico-fisico, socialità, convivialità e partecipazione ad un percorso culturale e/o educativo per coltivare nuovi stili di vita più sostenibili. È disposto a pagare la prestazione di cui è fruitore. Nella maggior parte dei casi, è privo della professionalità e dei mezzi tecnici necessari per svolgere l’attività ma è pronto ad acquisirli.

L’organizzatore del servizio può essere un soggetto privato o pubblico che ha la disponibilità del terreno su cui si svolge l’attività ed è il titolare/responsabile dell’attività medesima.  Egli deve soddisfare un fruitore particolare, fortemente motivato, abbastanza consapevole e potenzialmente esperto.  Il movente dell’organizzatore è l’idea di creare un’attività terziaria in agricoltura per allestire, in una data comunità, un servizio socio-culturale innovativo dai forti risvolti ecosistemici e paesaggistici. Questa attività permette, infatti, di conseguire una serie di obiettivi d’interesse generale. Qui si dà conto solo di alcuni:

  1. accompagnare le persone ad assumere la responsabilità verso le risorse agricole e ambientali;
  2. realizzare esperienze collettive di agricoltura comunitaria non rivolta al mercato per favorire la cittadinanza attiva, accrescere i legami sociali e la convivialità;
  3. aiutare i cittadini residenti a riappropriarsi del territorio in cui si vive e a contribuire alla conservazione della cultura materiale;
  4. favorire l’incontro intergenerazionale (ad esempio, scolaresche e centri anziani) e interculturale (collaborazione tra gruppi etnici diversi);
  5. promuovere l’inclusione di persone svantaggiate mediante percorsi terapeutici e riabilitativi utilizzando le piante;
  6. favorire l’insegnamento e la diffusione di tecniche di coltivazione e di smaltimento dei rifiuti (compostaggio) basate sul principio della sostenibilità ambientale;
  7. promuovere le “buone prassi” nella conduzione degli orti attraverso forme di educazione ambientale;
  8. recuperare cultivar locali anche attraverso la costituzione di campi varietali;
  9. favorire l’autoproduzione di sementi e di varietà locali;
  10. recuperare tecniche tradizionali (muretti a secco, canalizzazioni, potature, innesti, ecc.).

I regolamenti per gli orti urbani

Le modalità del servizio “orti urbani” sono di diverso tipo a seconda dei soggetti che lo gestiscono. I rapporti che si stabiliscono tra il proprietario dei terreni e il concessionario non rientrano nella disciplina dei contratti agrari perché la causa della concessione non va ricercata nella volontà di dar vita ad un’impresa agricola. Il contratto che viene utilizzato normalmente è il comodato d’uso. Tale tipo di contratto (articolo 1803 del codice civile), essenzialmente gratuito, permette al proprietario (comodante) di consegnare al comodatario il terreno affinché egli se ne serva per un tempo e per un uso determinato con l’obbligo di restituirlo nelle medesime condizioni in cui è stato ricevuto. Il comodatario sarà obbligato alla restituzione alla scadenza del termine convenuto o, in mancanza di termine, quando il comodatario se ne sarà servito in conformità del contratto. Più precisamente il comodatario sarà tenuto alla restituzione del bene non appena il comodante ne faccia semplice richiesta.

È del tutto evidente la precarietà del rapporto che si stabilisce tra il proprietario e il concessionario, i cui interessi e apporti differenti si potrebbero meglio contemperare se si rivitalizzassero, in forme nuove, i vecchi contratti agrari associativi, superando il divieto.

Se l’organizzatore del servizio “orti urbani” è un’impresa agricola, è questa a fornire agli ortisti gli attrezzi e l’occorrente per svolgere l’attività di coltivazione. Essa definisce anche il regolamento di funzionamento del servizio e l’ammontare  del corrispettivo della prestazione che i fruitori dovranno pagare.

Se l’organizzatore del servizio “orti urbani” coincide con l’amministrazione comunale proprietaria dei terreni,  è questa ad emanare il regolamento che definisce le modalità di gestione, concessione ed uso degli orti. Provvede essa stessa a concedere i lotti ai cittadini, previa emanazione di bandi pubblici. Per favorire la partecipazione degli ortisti, il comune può prevedere la costituzione di comitati di gestione eletti, a maggioranza, dalle assemblee dei concessionari dei lotti e a cui vengono affidati particolari compiti definiti dal regolamento e imposte le condizioni ritenute essenziali a tutela della proprietà comunale, della salute pubblica e dell’integrità ambientale.

Se l’organizzatore del servizio “orti urbani” è un soggetto diverso dall’amministrazione comunale proprietaria dei terreni, sarà esso il concessionario dell’orto comune. Esso normalmente possiede lo status soggettivo di associazione (riconosciuta o non riconosciuta), fondazione, cooperativa sociale, organizzazione di volontariato, onlus, gruppo costituito come centro autonomo di interessi disciplinato da accordi stipulati dagli associati, scuola, struttura socio-sanitaria. E viene individuato a seguito di bandi pubblici emanati dal comune sulla base del regolamento comunale che definisce le modalità di allestimento, gestione, concessione ed uso degli orti. L’ente concessionario può utilizzare l’orto in modo indiviso oppure ripartendolo in lotti da assegnare a singoli cittadini mediante la pubblicazione di bandi.

Tutti i concessionari, sia degli orti comuni che delle singole parcelle, sono tenuti a versare il contributo alle spese di organizzazione del servizio (gestione e manutenzione straordinaria).

I comuni si riservano di effettuare i controlli e il monitoraggio delle condizioni del suolo e delle acque di irrigazione per evidenziare eventuali contaminazioni ai fini del consumo alimentare.  Qualora vengano evidenziati tassi di inquinamento che non consentano l’utilizzo alimentare dei prodotti, sono inibite le produzioni agricole ai fini del consumo alimentare e valutate le possibilità di introdurre colture non commestibili (ornamentali, arboree, arbustive o di fito o micodepurazione), la bonifica meccanica del terreno nonché la realizzazione di orti rialzati con terra o biomassa di riporto e coltivazione di specie vegetali commestibili a radice corta.

Sono già alcune decine i comuni e le altre amministrazioni pubbliche che hanno emanato i regolamenti per gli orti urbani e c’è un pullulare di tavoli di confronto in altrettante amministrazioni su questa materia. Manca, tuttavia, una visione d’insieme e, soprattutto, non c’è un approfondimento sulle forme di gestione di beni che appartengono alle popolazioni e non dovrebbero quindi essere privatizzati nemmeno nella forma dell’assegnazione ad associazioni private non lucrative. Alcuni comuni hanno allo studio progetti di utilizzazione di terreni comunali da affidare a cooperative di comunità o a fondazioni di partecipazione per fare in modo che il protagonismo delle comunità locali abbia una platea la più ampia possibile.  Visioni stataliste e burocratiche frenano ancora la ricerca di forme di gestione comunitarie che possano ispirarsi alla tradizione dei demani civici e delle proprietà collettive e, dunque, a forme di reale coinvolgimento dell’insieme dei cittadini di un determinato territorio. Negli ambiti urbani, il modello di gestione – ancora in fase progettuale – che più si avvicina alla tradizione delle proprietà collettive è il “Condominio di Strada”, promosso dall’Unione Nazionale Inquilini Ambiente e Territorio (UNIAT) e dell’Unione Piccoli Proprietari Immobiliari (UPPI), per creare comunità di proprietari e inquilini lungo le vie cittadine e organizzare servizi comuni, compresa la gestione di quei beni (corsi, viali, vicoli, aree verdi, rive di fiumi, ecc.) che da proprietà pubbliche potrebbero progressivamente trasformarsi in proprietà collettive.

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