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RIFORMA AGRARIA. Un’interpretazione

Relazione illustrata il 23 ottobre 2015 a Roma, presso la sede della FIDAF, Sala "Giuseppe Medici", nell'ambito dei VENERDÌ CULTURALI - 9° CICLO - 2015 - promossi da FIDAF - SIGEA - ARDAF - Ordine Dottori Agronomi e Forestali di Roma

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L’ipotesi interpretativa che intendo esporre con tutte le incertezze del caso – e che solo a seguito di ulteriori ricerche potrebbe diventare meno insicura (la storia, come tutte le scienze, non fornisce mai interpretazioni definitive!) – si può così sintetizzare: la Riforma agraria, realizzata in Italia negli anni Cinquanta, costituisce un elemento fondante della modernizzazione del Paese e non già un episodio marginale; essa si colloca intenzionalmente, insieme alle opere infrastrutturali realizzate con l’intervento straordinario nel Mezzogiorno, in una visione dello sviluppo inteso come sviluppo non limitato alla sola dimensione economica, autopropulsivo e autoctono, cioè fondato sulla migliore combinazione dei fattori produttivi presenti in un determinato territorio e capace di tener conto dei condizionamenti sociali, politici e istituzionali; questa visione viene infranta dalla scelta politica di puntare ad una industrializzazione forzata dall’alto (inquadrata in una visione dello sviluppo del tutto opposta a quella precedente); una opzione politica che determina di fatto la marginalizzazione dell’agricoltura nell’opinione pubblica e nell’azione di governo e, in particolare, la rottura della tradizionale osmosi tra competenze tecnico-scientifiche e saperi esperienziali degli agricoltori; rottura che si inserisce tra le cause della successiva crisi ecologica che ancora oggi viviamo.  

Se questa interpretazione di una fase cruciale della vita sociale, economica, politica e istituzionale del Paese – che segnò il passaggio dell’Italia da Paese prevalentemente agricolo a Paese prevalentemente industriale – fosse convalidata da ulteriori ricerche, avremmo più argomenti per affrontare i problemi dell’oggi. Soprattutto nel tentativo di ripensare l’idea stessa di sviluppo e di innovazione.

 

Per illustrare la suesposta ipotesi interpretativa, dirò innanzitutto in sintesi cos’è stata la Riforma agraria in Italia.

La Riforma agraria avviata nel 1950 riguarda esclusivamente il Molise, la Puglia, la Basilicata, la Calabria, la Sicilia, la Sardegna e alcune province di altre regioni: il Delta padano, la Maremma e il Fucino. Vengono espropriate le proprietà superiori ai 300 ettari. Sono indennizzati 2.800 proprietari. I 700 mila ettari espropriati costituiscono la massa delle terre assegnate poi in poderi ai contadini. Al tempo stesso si creano gli Enti di riforma, destinati non solo a governare la redistribuzione delle terre, ma anche a fornire assistenza tecnica e finanziaria ai contadini assegnatari, tenuti peraltro al pagamento delle rispettive rate per il fondo ottenuto.

Si calcola che fra il 1950 e il 1960, quando già il grosso delle operazioni di assegnazione è esaurito, oltre 417 mila ettari di terra siano passati in mano a contadini e braccianti poveri. Un trasferimento di beni fondiari di notevole ampiezza deciso e governato direttamente dall’autorità pubblica.

Ad esso va aggiunto un moto spontaneo di accesso alla terra favorito dalla Cassa per la proprietà contadina e dalle agevolazioni fiscali poste in essere dallo Stato. In virtù di tali misure – tra il 1948 e il 1968 – passano nelle mani dei contadini un altro milione e 600 mila ettari. Quindi, in un paio di decenni, la proprietà coltivatrice si allarga su altri due milioni di ettari.

 Con la riforma agraria nel 1950 si approva anche la legge che istituisce la Cassa del Mezzogiorno. Il territorio compreso nella sua sfera di influenza sono tutte le regioni meridionali e alcune aree delle regioni Lazio, Marche e Toscana. La dotazione iniziale della Cassa ammonta a mille miliardi, da utilizzare nell’arco di dieci anni. La sua funzione è essenzialmente quella di costruire opere pubbliche. Con gli interventi della Cassa viene completata la bonifica ed estesa l’irrigazione su oltre 500 mila ettari. Si costruiscono nuovi acquedotti e si migliora ovunque la viabilità.

In che modo la Riforma agraria e le opere infrastrutturali realizzate dalla Cassa del Mezzogiorno contribuiscono ad ammodernare il Paese?

Nonostante i suoi limiti, la Riforma agraria sancisce la fine delle grandi aristocrazie terriere che, in verità, già sopravvivevano a se stesse e non avevano più il potere esercitato in passato. Permette ad un numero considerevole di famiglie contadine di coronare il sogno di possedere un fondo da cui ricavare un reddito sufficiente. Con le opere pubbliche realizzate dalla Cassa, un fitto e crescente sistema viario penetra nelle aree interne, collegando centri piccoli e medi ai grandi assi stradali. Si rompe così l’isolamento tradizionale di tanti e tanti sperduti centri rurali. Spesso le strade sono costruite senza tener conto delle condizioni geomorfologiche e ambientali, determinando problemi gravi nei decenni successivi. E tuttavia il tono della vita civile delle popolazioni viene elevato, grazie ai più facili rapporti col resto del mondo, alle migliori condizioni igieniche prodotte dalla diffusione dell’acqua potabile, alla realizzazione delle bonifiche, alla costruzione di moderni sistemi di fognatura. L’infrastrutturazione dell’agricoltura meridionale migliora notevolmente il sistema produttivo. La produzione agricola si raddoppia. In molti comprensori di bonifica, come quello del Metapontino, la popolazione cresce addirittura di quattro volte e la disoccupazione è debellata. Tali trasformazioni aprono la strada a nuovi gruppi sociali e a nuove classi dirigenti.

La Riforma agraria, le opere infrastrutturali della Cassa e più ancora le leggi che permettono a centinaia di migliaia di mezzadri e affittuari di diventare proprietari agiscono come un “colpo d’ariete”, prendendo in prestito la suggestiva interpretazione di Giuseppe Medici – e fatta propria da Luigi Einaudi – delle ondate di  trasformazioni che tali provvedimenti provocano sul tessuto economico del Paese.

Si realizzano infatti, da una parte, un nuovo e più esteso processo di industrializzazione e, dall’altra, l’innesto su una proprietà più diffusa della terra di un’agricoltura più moderna, come due facce della stessa medaglia. In altre parole, lo sviluppo di imprese agricole più vivaci produce una nuova e più consistente domanda di mezzi tecnici per l’agricoltura che viene soddisfatta dalla creazione di nuove imprese industriali. E nello stesso tempo si sviluppa ulteriormente l’industria manifatturiera nel settore alimentare. In sostanza, l’Italia può definirsi effettivamente un Paese industriale solo quando con la Riforma agraria si crea – in modo più consistente rispetto al passato – una proprietà diffusa della terra e si rafforzano le condizioni per ammodernare ancor più l’agricoltura.

A distanza di appena 8 anni dall’approvazione delle leggi per la Riforma agraria e l’intervento straordinario nel Mezzogiorno, nel 1958, gli occupati in agricoltura cedono il primato nelle statistiche ai lavoratori dell’industria. Questo dato ci fa comprendere la dirompenza del processo che si era innescato.

Il mondo politico e culturale del tempo non riesce a percepire questi mutamenti. C’è una ragione di fondo che impedisce di cogliere le trasformazioni che avvengono rapidamente già nei primi anni Cinquanta?

A mio avviso, il motivo principale sta nella mancanza  di strumenti analitici che permettano di leggere la realtà. Le nostre classi dirigenti, sia quelle governanti che quelle influenzanti, sono state e, per certi versi, sono tuttora – per usare un’espressione tranciante di Franco Ferrarotti – “truppe straniere di occupazione in un paese che non conoscono”. Disprezzano la sociologia e l’approfondimento delle mutazioni sociali e si limitano a spremere e a sfruttare gli elementi di irrazionalità e di emotività.

Solo dopo alcuni decenni si comprenderà, ad esempio, che i distretti industriali che caratterizzano l’Italia contemporanea nascono laddove la società locale incorpora la cultura, il saper fare, i valori di tante generazioni che sono vissute nei poderi mezzadrili ed hanno costruito forme molteplici di collaborazione tra le diverse unità produttive. La persistenza diffusa della famiglia contadino-operaia, con le sue particolari caratteristiche di comportamento, contribuisce all’industrializzazione di diverse realtà del Paese.

Con la Riforma agraria e le leggi sulla proprietà coltivatrice, si viene a consolidare e approfondire un processo che, lentamente e gradualmente, aveva investito fin dall’Ottocento l’Alto Milanese, la Brianza e il Comasco, trovando ora occasione di applicazione nel Veneto, in Toscana e nelle Marche, dove la società contadina, mantenendo le proprie caratteristiche, da una parte promuove una crescita dell’agricoltura e, dall’altra, si dissolve in piccole attività manifatturiere. La pluriattività individuale e familiare, da condizione necessaria, diventa un’abitudine e viene a costituirsi come il nerbo dell’economia italiana.

Come si può facilmente notare, crescita imprenditoriale del ceto contadino e industrializzazione sono processi che non si annullano reciprocamente ma sono sinergici, già inscritti, peraltro, nelle vicende socio-economiche che avevano segnato alcune realtà del Paese tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.

Non solo una maggiore produttività agricola induce una più sostenuta domanda di mezzi tecnici e, dunque, nuovi investimenti industriali. Non solo un maggiore risparmio conseguito con le indennità di esproprio provoca investimenti produttivi in altri settori. Ma anche una maggiore diffusione della pluriattività e dei legami sociali territoriali, indotta dalla proprietà contadina, crea convenienze e opportunità per la crescita di un tessuto di piccole e medie imprese industriali.

Questi fenomeni alla fine degli anni Cinquanta e negli anni Sessanta non si colgono. Si tratta di uno strabismo che la cultura predominante nel Paese porterà con sé per lungo tempo e che si rifletterà anche nelle opere letterarie e cinematografiche dei decenni successivi, le quali non dipingeranno quasi mai le campagne e, quando sporadicamente accade, non sono mai quelle venute fuori dai provvedimenti per la Riforma agraria, ma sempre e soltanto i paesaggi agrari dei periodi precedenti. Basti citare romanzi come Il taglio del bosco e La ragazza di Bube di Carlo Cassola. Oppure film come Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, Novecento di Bernardo Bertolucci e L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi.

Nell’immaginario di ampi strati della cultura italiana resterà fisso lo schema della società pienamente industriale come conclusione della vicenda dei contadini e dell’agricoltura e come esordio nella scena politica e sociale di un nuovo ceto, quello operaio, inteso in modo salvifico come classe generale e guida delle trasformazioni sociali.

Bisognerà attendere le storie di vita operaia raccolte da Franco Ferrarotti con Pietro Crespi e pubblicate a metà degli anni Novanta con il titolo La parola operaia, per apprendere che “i gruppi operai italiani sono fortemente radicati nella realtà contadina e, anzi, trovano puntualmente nelle specifiche situazioni locali e nell’ambito familiare quella base d’identità e quella sorta di ammortizzatore segreto delle crisi sociali ad ampio raggio, che in altri contesti sociali e storici hanno dato luogo ai noti fenomeni di sradicamento e di alienazione operaia”. Utilizzando queste parole a commento delle storie di vita operaia, il decano della sociologia italiana tesse forse l’elogio più bello dell’agricoltura moderna, per le sue funzioni ammorbidenti e lenitive svolte nel corso di profonde trasformazioni sociali.

Ora passerò ad esaminare come i protagonisti della Riforma agraria vivono quella vicenda a partire dai contadini e dai movimenti che nascono alla fine degli anni Quaranta per ottenerla.

Nell’ottobre 1949 migliaia di contadini in Calabria e Basilicata, guidati da esponenti sindacali e di partito, socialisti e comunisti, ma anche cattolici, si dirigono verso le terre dei grandi proprietari. Una volta giunti sui fondi, segnano meticolosamente le quote di ciascuno e iniziano immediatamente i lavori per la semina.  La tensione nelle campagne meridionali è alimentata dalla fame di terra soprattutto da parte dei reduci dalle dolorose esperienze dell’ultimo conflitto. Ma non c’è un clima insurrezionale. Le iniziative di mobilitazione sono guidate da intellettuali scrupolosamente attenti ad isolare le posizioni estremistiche e a favorire la partecipazione di un ventaglio ampio di ceti sociali.

Dappertutto, si costituiscono i Comitati per la terra, aperti a tutti i cittadini e a tutte le organizzazioni democratiche. Le occupazioni di terre in questo periodo hanno, dunque, più un carattere di grande festa popolare per il riscatto della condizione contadina che non quello di un vero e proprio atto rivoluzionario. Sono momenti in cui cresce la consapevolezza della necessità di una rinascita, di un cambiamento profondo per determinare nuove condizioni di vita. Ma da raggiungere attraverso un allargamento del consenso.

Le feste però sfociano rapidamente in tragedie per insipienza di alcuni responsabili dell’ordine pubblico o per troppo avida paura di alcuni proprietari.  La polizia  spara sui manifestanti e muoiono alcuni contadini. A Torre Melissa in Calabria cadono Angelina Mauro, Giovanni Zito e Francesco Nigro nel fondo chiamato “Fragalà” di proprietà della famiglia Berlingieri; mentre a Montescaglioso, in provincia di Matera, viene recisa la vita di Giuseppe Novello in località “La Dogana” ove sono le proprietà di Carlo Salinari, autorevole collaboratore della rivista culturale “Il Contemporaneo” del Pci. Braccianti e dirigenti sindacali, mobilitati per il rinnovo del contratto di lavoro, vengono uccisi in altri scontri che si verificano in numerose località del Paese.

Era accaduto più volte nell’Italia liberale, ma adesso si registra una novità rilevante: è l’intera opinione pubblica a rimanere scossa da tali episodi di gratuita violenza ai danni di ceti considerati marginali nel contesto sociale. Anche per questo motivo, le direttive ai prefetti del ministro dell’Interno Scelba raccomandano di evitare scontri con gli occupanti e di limitarsi a denunciare all’autorità giudiziaria le persone coinvolte.

A seguito di questa mobilitazione che ha assunto anche risvolti cruenti il governo si affretta a varare, nel corso del 1950, una serie di provvedimenti per attuare la Riforma agraria in alcune aree del Paese, da tempo in gestazione ma ora ritenuta urgente. Nel gruppo dirigente nazionale del Pci si avverte tuttavia un senso di smarrimento, quasi una difficoltà a cogliere il senso della vicenda. Molti vorrebbero capire meglio se in Calabria la reazione cruenta della polizia fosse in qualche modo la conseguenza di errori commessi dagli organizzatori. E Togliatti interviene nella direzione comunista del 23 novembre giudicando quanto stava accadendo “un grande fatto positivo che ha imposto a tutto il paese il problema della terra”. A differenza di altri dirigenti del suo partito, egli non critica per nulla la conduzione dell’iniziativa di lotta che ha portato allo scontro violento. Il punto critico che egli rileva è la disorganizzazione della Costituente per la Terra e “il fatto che noi siamo rimasti sorpresi da riserve di combattività tra i contadini che non conoscevamo”.  Non dà spazio alle autocritiche. Il crudo realismo di Togliatti lo porta a considerare gli scontri di Melissa un momento altamente significativo, perché un fatto violento stava innescando la disarticolazione del blocco sociale e politico della Dc e del governo. “La lotta per la riforma agraria – egli afferma – comprende anche fasi aspre, cruenti e non dobbiamo meravigliarci: queste semmai sono le violenze giuste e non quelle sporadiche violenze individuali”. Una posizione che fa emergere il paradosso di tenere insieme pulsioni estremiste, fino all’esaltazione della violenza politica, e considerazioni realistiche sull’impossibilità di una prospettiva rivoluzionaria in un Paese destinato, dagli accordi di Yalta, al blocco occidentale. Emerge in questo episodio la doppiezza della “via italiana al socialismo”. Doppiezza delle due motivazioni da far coesistere: l’utopia comunista (e conseguentemente il legame di ferro con l’URSS) e il condizionato impegno per la democrazia, imposto dalla realistica collocazione dell’Italia nell’area europea occidentale.

Come appare chiaro dall’efficace ricostruzione di Emanuele Bernardi, la Riforma agraria è legata ai finanziamenti derivanti dal Piano Marshall, lanciato dagli Stati Uniti nel 1947 per contribuire alla ricostruzione postbellica. Nell’idea americana di modernizzazione dell’Italia, la Riforma agraria è però intesa principalmente come realizzazione di opere infrastrutturali, mediante la costruzione di strade, ponti, canali e opere di bonifica, e solo marginalmente come processo di redistribuzione fondiaria per rispondere alla plurisecolare fame di terra dei contadini. Assume quindi un aspetto sostanzialmente simile agli interventi che gli Stati Uniti avevano messo in campo nel processo di ammodernamento della propria agricoltura dopo la crisi del 1929. La portata di tali investimenti aveva innescato dei processi identitari di vasta portata rintracciabili ad esempio nella produzione letteraria. Si pensi al romanzo Furore di John Steinbeck che ne consacra questo riconoscimento.

Le direttive americane sono, pertanto, concepite in modo antitetico a quelle perseguite dal ministro Segni, dalla Coldiretti e dalla sinistra, e vicine, invece, alle posizioni della Confagricoltura, della destra democristiana e dei liberali, con l’avallo attivo della Confindustria.

La posizione americana risulta in realtà rovesciata rispetto alle linee originarie del programma di ricostruzione europea formulate dall’amministrazione degli Stati Uniti e che contenevano obiettivi produttivistici fortemente integrati con finalità sociali. E tale ribaltamento avviene a seguito di una pressante azione lobbistica nei confronti dei responsabili del Piano Marshall a Roma da parte della Confindustria e della Confagricoltura.

È per questo motivo che Segni, nonostante le pressioni che vengono dal “movimento per la terra” e la sua intima convinzione sulla necessità di una Riforma agraria generale, è costretto a ridimensionarne l’applicazione ad alcune aree del Paese, ottenendo solo a queste condizioni il consenso di tutta la Dc.

Meno problematico, almeno inizialmente, appare l’iter di un altro disegno di legge predisposto dal governo e teso a trasformare i contratti di mezzadria in affitto.

Esso è varato dalla Camera dei Deputati il 22 novembre 1950 con il voto favorevole della sinistra. Ma tale esito suscita la vivace reazione della proprietà fondiaria che ne impedisce l’approvazione definitiva. Sicché, nelle elezioni amministrative del 1951 la Dc registra una sonora sconfitta a vantaggio dei piccoli partiti alleati e Segni è sostituito da Amintore Fanfani al dicastero dell’Agricoltura. Per un lungo periodo non si parlerà più di riforma dei contratti agrari ma si prorogheranno sine die quelli in corso.

 

Ora vediamo come il movimento per la Riforma agraria agisce dopo l’approvazione della legge del 1950.

Dei risultati della Riforma agraria e dei processi fortemente innovativi da essa innescata, la sinistra non sa avvantaggiarsi. Pur avendo guidato il movimento per ottenere la Riforma, essa commette l’errore di votare contro queste leggi. Tale atteggiamento non è reso obbligatorio dalla contrapposizione derivante dalla “guerra fredda”. Come si è visto, la riforma dei contratti  agrari  è  approvata  anche  dalla  sinistra quando se ne presenta l’occasione in un ramo del Parlamento.

Comunisti e socialisti non comprendono che i provvedimenti di Riforma agraria, nonostante l’ambito ristretto della loro applicazione, sono in ogni caso di una portata tale che arrecheranno di lì a poco modifiche profonde all’intera struttura produttiva nazionale e riscuoteranno un largo consenso nella società.

Alla sinistra nel suo complesso sfugge la portata generale dei provvedimenti strutturali per l’agricoltura. Non fanno eccezione nemmeno i suoi settori più innovativi che guardano con interesse ad un intervento pubblico in grado di edificare lo Stato sociale.

Non a caso il Piano del Lavoro presentato dalla Cgil di Di Vittorio, in un convegno del 1949, è tutto concentrato sulle opere pubbliche e non sulla Riforma agraria. Ed è per questo motivo che l’anno successivo il dirigente comunista, che è segretario del più grande sindacato italiano ma anche parlamentare, in disaccordo con il suo partito, vota coraggiosamente a favore della legge istitutiva della Cassa per il Mezzogiorno, a cui si affida la gestione di un’imponente mole di opere pubbliche, ma non ci pensa nemmeno un istante a contravvenire alla disciplina di partito quando si tratta di votare i provvedimenti di Riforma agraria.

Di Vittorio ammetterà l’errore nella riunione della direzione del Pci del 28 ottobre 1954: “Sono persuaso che il nostro voto sulla Cassa e la riforma agraria ha reso più difficile la nostra azione. Quando c’è un passo avanti determinato dalla nostra lotta dobbiamo votare a favore con chiare dichiarazioni di voto”.

Ma ormai era troppo tardi per recuperare. La sinistra era in forte ritardo nel dar vita a organizzazioni dei coltivatori autonome dai sindacati dei lavoratori dipendenti. Nel 1951 era stata fondata a Napoli l’Associazione dei contadini del Mezzogiorno, affidata alla guida del comunista Pietro Grifone e del socialista Giuseppe Avolio. L’organizzazione è autonoma  dalla Cgil e dalla Federterra ma è limitata alle regioni meridionali. Solo nel 1955 nasce a Roma l’Alleanza nazionale dei contadini, in cui confluiscono l’Associazione dei contadini del Mezzogiorno, l’Associazione coltivatori diretti del Centro-Nord, costituita dopo le elezioni politiche del 1948 e che finalmente adesso si distacca dalla Confederterra, e le altre strutture che si sono nel frattempo costituite su basi regionali. Manca all’appuntamento la potente Federmezzadri, che resterà nella Cgil fino alla metà degli anni Settanta quando potrà confluire nella Confcoltivatori. Sono ancora forti le resistenze politiche a considerare i mezzadri come una categoria non assimilabile ai lavoratori dipendenti.

La sinistra non organizza gli assegnatari della Riforma. Essa è convinta che i provvedimenti di Riforma non avrebbero granché migliorato le condizioni dei contadini. E  mostra nei confronti dell’attuazione di quelle leggi un atteggiamento di attesa, di smobilitazione, di opposizione negativa e passiva. Solo nel 1954 si svolge a Roma una conferenza nazionale degli assegnatari e viene nominato un comitato nazionale che si trasforma in associazione  nel 1956, a seguito di un congresso svoltosi a Grosseto.

Sicché, questo atteggiamento della sinistra – a cui corrisponde una conduzione dell’attuazione della Riforma e degli interventi della Cassa, da parte del governo, in funzione anticomunista – fa sì che i contadini meridionali vivano quella fase in una condizione di separati in casa. Dei 120 mila intestatari originari di poderi e quote superano il deserto dal bracciantato alla proprietà contadina in 80 mila. È verosimile che molti tra i promossi diventino democristiani e una quota ristretta rimanga a sinistra. Per usare un’icastica immagine del poeta di Tricarico, la Dc e la sinistra si litigano i contadini come l’angelo e il diavolo, per poi assoggettarli ad appartenenze separate.

In un romanzo intitolato Uno dei tanti, Giovanni Forte descrive con singolare plasticità il dramma psicologico che si consuma tra i braccianti iscritti alla Cgil, in un comune pugliese, quando vengono informati dalla locale sezione della Dc di essere stati segnalati all’Ente di riforma per l’assegnazione di un podere. Quella condizione di separati in casa impedisce ai contadini  di legare la propria evoluzione imprenditoriale ad una crescita di peso sociale. E questo perché viene a mancare un’autonoma struttura di rappresentanza, più libera dai condizionamenti ideologici e più vicina al sentire e al modo di pensare della gente dei campi.

C’è poi un altro grande protagonista della Riforma agraria e dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno: il mondo delle competenze. Quale ruolo svolge, come vive quella vicenda?

La cultura agronomica ed economico-agraria, nonché quella nel campo dell’ingegneria idraulica, hanno svolto una funzione decisiva nell’influenzare le decisioni politiche che hanno guidato l’elaborazione e l’attuazione delle leggi di Riforma agraria e la realizzazione delle opere infrastrutturali nelle campagne meridionali mediante l’intervento straordinario nel Mezzogiorno. I tecnici agrari hanno espletato questa funzione convinti di portare una responsabilità intellettuale e civile ben superiore alla semplice erogazione di specifiche competenze. Essi hanno ritrovato nel secondo dopoguerra, così come era avvenuto prima e durante il fascismo, una compattezza di gruppo e una capacità decisionale che stupisce se rapportate alla consistenza numerica della categoria. Hanno mostrato un’attenzione alla dimensione etico-politica dell’agire sociale e sono stati attenti al consolidamento di una reputazione che avevano coltivato nei decenni precedenti legata ad una loro propria specifica funzione: quella di espandere il progresso, affermare la centralità dell’agricoltura nell’economia e attribuire una specificità di valori al mondo rurale.

È per tali fini che nel 1944 era stata fondata la nuova Federazione Italiana dei Dottori in Agraria e Forestali (FIDAF), che costituisce una delle sedi più prestigiose di coagulo della cultura agraria superiore nel nostro Paese. Per comprendere l’importanza di questa cultura nell’elaborazione e realizzazione delle politiche pubbliche basti questo dato: nel 1964 su 12.362 agronomi laureati, 6.680 operavano nel settore pubblico.

Anche l’Istituto Nazionale di Economia Agraria (INEA) ha svolto, fin dalla fondazione avvenuta nel 1928 per iniziativa di Arrigo Serpieri, la funzione di una “istituzione culturale”. Pur essendo un ente pubblico, ha goduto sempre – almeno in via di principio – di una relativa autonomia dal potere politico. Autonomia sancita dal decreto costitutivo e poi rimasta come tratto essenziale nel suo statuto. Saranno le personalità che lo dirigeranno, con la loro capacità e autorevolezza, a determinare la qualità del rapporto con la politica. Ma anche i leader politici che avranno a che fare con questa struttura mostreranno l’interesse a cavarne un apporto a seconda del grado di indipendenza che sapranno garantirle.

Nel secondo dopoguerra l’INEA aveva ripreso l’attività sotto la guida di Manlio Rossi-Doria che si era laureato, insieme al suo compagno di scuola Emilio Sereni, alla Facoltà di Agraria di Portici, dove aveva fin dal 1928 lavorato in attività di ricerca presso l’Osservatorio di Economia agraria, sotto la supervisione del Serpieri, e dove era tornato nel 1944 come professore incaricato di Economia e politica agraria . L’Istituto aveva costituito un punto fermo da cui partire per ricostruire gli studi di economia agraria e per delineare l’intervento pubblico in agricoltura.

Fondamentale era stata la funzione di supporto svolta da Rossi-Doria ai lavori della Costituente. Egli era stato comunista da giovane e aveva patito anche il carcere e il confino per questa sua scelta.  Si era poi gradualmente distaccato dall’ideologia marxista-leninista e aveva aderito al Partito d’Azione. Quando era stato chiamato a far parte della Commissione economica della Costituente, egli aveva portato con sé un giovane laureato in Giurisprudenza, anche lui azionista, Giuseppe Orlando, e aveva avuto come collaboratore, Giuseppe Medici, un giovane laureato in Scienze agrarie che aveva preso parte al movimento di liberazione con funzioni di collegamento tra liberali e democristiani.  La Commissione economica a sua volta era stata articolata in Sottocommissioni. Rossi-Doria aveva coordinato la Sottocommissione Agricoltura, composta da una decina di esperti. Era stata prodotta una relazione di circa cinquecento pagine per ciascuno dei cinque temi affrontati: la proprietà fondiaria, i contratti agrari, i problemi della bonifica, i problemi della montagna e delle foreste, il problema della produzione agricola.

Quando si approvano la Riforma agraria stralcio e l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno, un ruolo fondamentale lo svolgono due tecnici con una spiccata vocazione per la politica, Medici e Rossi-Doria. Sono essenzialmente loro a tessere un complesso intreccio di relazioni tra gli alleati di governo, nonché tra questo e l’amministrazione americana per un verso e l’opposizione comunista per l’altro che porta al superamento delle difficoltà e al varo dei provvedimenti. E successivamente sono sempre loro, insieme ad altri tecnici, a gestire quelle leggi.

Per quali ragioni si costruisce un rapporto virtuoso tra competenze e politica nei primi anni della Repubblica?

Partiamo dalla prima ragione: il rispetto dell’autonomia. La politica praticata in quegli anni dai partiti di governo ha vari difetti; ma un pregio è innegabile: il rapporto coi tecnici e con le competenze avviene indipendentemente dall’affiliazione politica. Una scelta di principio che il Presidente del Consiglio dell’epoca, Alcide De Gasperi, enuncia esplicitamente nel suo intervento al III Congresso nazionale della Dc del giugno 1949: “Senza dubbio, se noi possiamo ottenere l’associazione della competenza tecnica con la concezione sociale (cioè l’uomo moderno con la mente aperta alle riforme, e con la conoscenza delle aspirazioni delle classi alle quali le riforme si rivolgono) è certo il meglio che si possa fare. Quindi se troviamo un democratico sul serio che abbia contemporaneamente cognizioni tecniche per un posto economico o esecutivo, egli deve essere certo il preferito. Però, la competenza tecnica è necessaria e non sempre disponibile come la tessera del Partito. Segnalateci dei giovani che maturano, e noi vi saremo grati. Non è che si vada a cercare nell’antico Partito liberale il tale o il tal altro uomo, perché del Partito liberale. È semplicemente un uomo che ha fatto l’esperienza avanti che l’abbiano potuta fare altri. Evidentemente questo contributo non deve essere trascurato. Il Paese, badate, dopo un periodo in cui la tessera era tutto e la competenza poco, il Paese oggi ha diritto di sapere che secondo il nostro sistema non è la tessera politica quella che decide quando si tratta di posti di competenza; e i nostri devono sapere che alla tessera, intesa come concezioni di vita, bisogna aggiungere competenza. Fortunati noi se le troviamo associate”.

Ai tecnici che collaborano coi governi e con le  strutture pubbliche dello Stato  è garantita l’autonomia in modo scrupoloso fino al compimento del centrismo degasperiano. Già con la segreteria democristiana ad Amintore Fanfani nel 1954 incomincia una fase in cui la collaborazione tra politica e tecnici si trasforma e sempre più viene richiesta a questi ultimi un’adesione politica per svolgere funzioni pubbliche fino a pretendere – dagli anni Sessanta in poi – vere e proprie forme di fedeltà.

La seconda ragione per la quale i tecnici possono svolgere una funzione decisiva nell’influenzare la politica è che la loro cultura ha un fondo comune nella disponibilità ad un approccio territoriale e comunitario, di tipo multidisciplinare, nell’affrontare i problemi dello sviluppo. Un approccio che ha una sua peculiare tradizione nella cultura italiana. Tale apertura culturale può venir fatta risalire  – per non riandare troppo in là nel tempo – agli studi di Carlo Cattaneo nei quali, più volte e per differenti motivi, egli aveva ritenuto di dover fermare la sua attenzione sul significato della contrapposizione tra “città” e “campagna”. Allo stesso filone possono essere ricondotte molte delle inchieste parlamentari del primo periodo successivo all’unificazione nazionale, intese ad approfondire la conoscenza delle condizioni di vita esistenti nelle regioni meridionali appena annesse. In quegli studi aveva cominciato a manifestarsi, seppure embrionalmente, un primo tentativo di collaborazione di più esperti o, meglio, di studiosi aventi una differente formazione culturale oltre che ideologica. Pur rimanendo documenti nettamente politici, una loro rilettura non impedisce di interpretarli come i primi modelli di quelle che, successivamente, sono state indicate come “ricerche interdisciplinari”.

Tale impresa era continuata con l’elaborazione della politica di “bonifica integrale” da parte del Serpieri che aveva chiarito ulteriormente il senso di una lettura del Bel Paese come un mosaico delle “cento Italie agricole”.  Come sottolinea Gilberto Antonio Marselli, nel caso del Serpieri l’apertura mentale ad un approccio interdisciplinare era stato assai più netto, anche se condizionato da una prevalenza dell’impostazione economico-agraria. Egli aveva scritto nel primo volume della collana ‘Studi e Monografie’ dell’INEA (1929): “Ai giovani, sotto forma di questionarî, una traccia per le ricerche di carattere monografico, su singoli territorî ed imprese…[segnalando loro]…i singoli fatti ed aspetti sui quali, per un’approfondita conoscenza dell’economia della produzione terriera, deve portarsi la loro attenzione. (…) Saper cogliere quei fatti ed aspetti che, a seconda del fine dell’indagine e dei caratteri dell’oggetto studiato, meritano di essere più ampiamente analizzati, è in verità ciò che più importa, in questi studi: così si dà il rilievo ad un quadro che altrimenti risulterebbe spaventosamente piatto; così si rendono questi studi utili alla vita”. Leggendo le ben trentasei pagine del primo dei questionarî proposti, ci si  rende perfettamente conto dell’apertura culturale dimostrata dal Serpieri. In particolare, dell’esigenza, già allora sentita, di superare i ristretti limiti  imposti da una mera analisi dei soli aspetti riconducibili alla produzione ed alla contabilità a livello aziendale, per estendere lo studio a tutte le diverse manifestazioni di vita e di organizzazione dell’intero territorio oggetto di esame.

A ben vedere, la stessa tradizione del vecchio meridionalismo, da Franchetti a Sonnino, Zanardelli, Villari, Fortunato, Dorso, Gramsci e altri, aveva manifestato una sensibilità particolarmente accentuata agli aspetti extraeconomici del sottosviluppo dell’area meridionale del Paese e posto le condizioni per avviare uno studio scientifico sistematico del Sud, dal punto di vista del sistema culturale in generale, e di aspetti particolari di esso.

Il Gruppo di Portici e l’apertura alla Sociologia

Il tutto confluisce nella profonda e vivace cultura di Rossi-Doria che unisce stupendamente le scienze sperimentali con le discipline umanistiche. È lui ad aprire a Portici la strada alla Sociologia. È agevolato dall’arrivo frequentissimo di studiosi americani (grazie al Programma Fullbright e all’intervento di varie Fondazioni) che vi sono attratti soprattutto dal Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi e dal desiderio di studiare le radici culturali degli italiani immigrati in USA. Ciò fa sì che, ben presto, Portici diventi meta preferita per chiunque (giornalisti, saggisti, cultori di altre discipline, scrittori, ecc.) voglia occuparsi del Mezzogiorno.

Tra gli studiosi nordamericani, un posto del tutto particolare e prioritario va indubbiamente riconosciuto a George Terhune Peck, non solo perché è, invero, il primo in assoluto ad arrivare a Portici (1949), ma perché proprio a lui, non sociologo, si deve la possibilità per il Gruppo porticense di entrare in contatto con le metodologie americane in tale disciplina. Partito da un generico disegno di ricerca, avente per oggetto la questione meridionale soprattutto nella sua componente agraria che non poco risente, evidentemente, dei suoi contatti avuti a Yale con il famoso Center of Italian Studies istituitovi da Salvemini, strada facendo il suo progetto si precisa meglio, concentrandosi maggiormente su alcuni aspetti da analizzarsi a livello comunitario.

Per tutte queste ragioni, il Gruppo di Portici si dedica prevalentemente allo studio delle comunità e delle realtà locali con il fine di dar luogo, poi, ad interventi concreti, nell’ambito di quella che Rossi-Doria aveva definito “azione meridionalista”.

Prima di redigere il disegno di legge sulla Riforma agraria, il ministro dell’Agricoltura, Antonio Segni, incarica Rossi-Doria di effettuare uno studio in Calabria. All’epoca, il professore di Portici è consulente dell’Opera valorizzazione Sila (un ente sorto per valorizzare le risorse turistiche della Sila) e, aiutato dal suo allievo Gilberto Antonio Marselli, redige la carta agronomica, una sorta di carta di utilizzazione del suolo, con il coinvolgimento dei contadini delle zone interessate. Per un anno i due studiosi percorrono a piedi il comprensorio silano, il marchesato di Crotone e la zona di Soverato. Non solo studiano le diverse possibilità di utilizzazione del suolo ma cercano di individuare anche dei gruppi sociali: una delle realtà più interessanti era quella greco-albanese, sempre soffocata e sottovalutata nella conoscenza della Calabria.

Tale sensibilità sociologica che accomuna il nucleo dei tecnici ed economisti agrari impegnati nelle attività di Riforma agraria (Giulio Leone, Felice Ippolito, Francesco Feraco, oltre naturalmente Medici e Rossi-Doria) lega immediatamente questi esperti ai tecnici della Cassa per il Mezzogiorno (Nallo Mazzocchi-Alemanni, Piero Grassini, Francesco Curato), nonché ai ricercatori della SVIMEZ – Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Pasquale Saraceno, Giorgio Ceriani-Sebregondi, Nino Novacco, Claudio Napoleoni, Giangiacomo Dell’Angelo), agli esponenti di Terza Generazione (Ubaldo Scassellati, Bartolo Ciccardini, Agostino Paci, Achille Ardigò) e agli studiosi che si raccolgono presso la Facoltà di Agraria di Portici intorno a Rossi-Doria (Carlo Cupo, Fedele Ajello, Domenico Viggiani, Angerio Filangieri, Gilberto Marselli, Rocco Scotellaro), fortemente coesi e non affetti dal “terribile morbo universitario della concorsite”, come ha ricordato icasticamente Marselli.

La SVIMEZ

La SVIMEZ era stata costituita nel 1946 per iniziativa del socialista Rodolfo Morandi, ministro dell’Industria dell’epoca, che ne era diventato il primo presidente. Tra i fondatori vi erano stati anche Rossi-Doria e Pasquale Saraceno in forza all’IRI, chiamati entrambi a far parte del Consiglio d’Amministrazione. Scopo principale dell’Associazione, sin dall’inizio, è lo studio dell’economia dell’Italia meridionale per promuovere, attraverso l’approfondimento delle ragioni del divario economico tra nord e sud, programmi di sviluppo delle Regioni meridionali finalizzati a realizzare l’unificazione anche economica dell’Italia.

Nel 1949 Pasquale Saraceno, su segnalazione del fratello Angelo, chiama alla SVIMEZ Giorgio Ceriani Sebregondi, un intellettuale legato a  Felice Balbo con il quale aveva aderito al Movimento dei cattolici comunisti e al Partito della Sinistra cristiana. Quando questo movimento si era sciolto alla fine del 1945, si era iscritto con altri suoi compagni al Pci. Egli matura, precocemente e da autodidatta, una visione dello sviluppo del tutto originale e lungimirante che solo negli ultimi decenni del Novecento si affermerà nel dibattito scientifico e istituzionale, in Europa e nel mondo. Il suo pensiero si può sintetizzare in due elementi essenziali: 1) la convinzione che lo sviluppo di una determinata area, per non essere effimero, deve essere autopropulsivo; 2) il giudizio di inadeguatezza di una concezione che limita il concetto di sviluppo ad una dimensione economica.

Sebregondi ritiene che una politica di sviluppo deve puntare a favorire la migliore combinazione dei diversi fattori, ma soprattutto influendo “sull’atteggiamento e sulla volontà delle popolazioni che devono sostenere ed orientare le politiche di sviluppo. Una politica di sviluppo che non riesca ad essere autosviluppo diviene un’imposizione o un’elargizione gratuita senza seguito.  (…) Ciò che occorre in primo luogo è l’apporto di un principio motore, di motivazioni ideologiche che sollecitino a volere lo sviluppo, e quindi a procurarsi e utilizzare i mezzi propri e altrui per attuarlo”.

Saraceno proviene, invece, dall’IRI e concepisce la politica di sviluppo del Mezzogiorno  principalmente come politica di investimenti industriali dello Stato attraverso un “intervento straordinario”. Le posizioni dei due dirigenti sono abbastanza distanti ma inizialmente Saraceno dà l’impressione di essere interessato ad approfondire l’approccio del collega.

Rossi-Doria e Sebregondi hanno un periodo di intensa frequentazione a partire dal 1950, quando, su proposta del professore di Portici, la SVIMEZ promuove il “Piano lucano”.  Rossi-Doria coordina il gruppo di studio e Sebregondi vi contribuisce con le sue ricerche.

L’anno precedente, in un saggio intitolato Natura e portata della pianificazione nelle regioni meridionali, lo studioso della SVIMEZ aveva correttamente rilevato che: “un piano economico non può essere fondato sull’univocità di una soluzione tecnica. La concatenazione degli elementi tecnici non è cioè, in sede economica, così consequenziale e univoca da non lasciare adito a numerose alternative di soluzione (…). In altri termini, il piano è una scelta. E quando non si tratti di una scelta ipotetica – a puri fini di studio – è essenzialmente una scelta politica. Poiché, ovviamente, la scelta politica non è nelle nostre possibilità, ogni soluzione preordinata di piano da noi sostenuta potrebbe risultare del tutto opinabile, se non addirittura arbitraria e comunque inoperante. Da questa situazione di fatto discende logicamente l’opportunità che la nostra organizzazione (la SVIMEZ, appunto) non si prefigga la formulazione di piani regionali intesi come programmi preordinati, organici e definiti. Essa dovrebbe tendere piuttosto all’identificazione e formulazione dei procedimenti metodologici e degli elementi di previsione e di giudizio tecnico-economico sulle varie soluzioni possibili, che possano costituire una guida all’orientamento  di chi debba e intenda operare la scelta effettiva”.

Rossi-Doria condivide questa impostazione e a fronte del tradizionale approccio che considera questa regione in funzione esclusivamente delle sue cinque valli, quale effetto del sistema idrico regionale (il Sinni, l’Agri, il Bradano, il Basento ed il Cavone), egli ne propone una lettura radicalmente diversa, più efficiente, efficace  e moderna, tale da tenere in giusto conto la componente antropica, che molto mutua, appunto, dalle esperienze straniere.

Così, vengono individuate le seguenti sei realtà omogenee, che si distinguono soprattutto per la natura e il grado di complessità dei loro problemi: la Montagna Lucana, l’Alta Val d’Agri, le Colline del Vulture, l’Ofanto e la pre-Murgia, le Medie Colline Interne e, infine, la ‘polpa’ in assoluto della Piana di Metaponto.

Come si può facilmente intendere, ciò rappresenta una vera e propria rivoluzione – e non solo da uno stretto punto di vista metodologico – nell’affrontare pragmaticamente i problemi di questa regione. Rivoluzione tanto più importante perché questo approccio non è adottato solo in sede di analisi dell’agricoltura locale, ma, invece, viene esteso ugualmente a tutti i settori produttivi così come al censimento di tutte le infrastrutture indispensabili per rendere efficienti e funzionali i vari servizi istituzionali, base essenziale per conseguire un reale ed organico sviluppo delle popolazioni interessate.

In prima linea, quindi, quelli scolastici e quelli sanitari; ma, non meno, anche quelle infrastrutture civili (viabilità, acquedotti, elettrodotti, centri di scambio e di servizi, ecc.) delegate a migliorare la qualità della vita oltre che a fungere da supporto indispensabile per le attività produttive.

Non meraviglierà, quindi, se, proprio in una tale ottica, i due settori molto importanti e delicati per l’impostazione e la riuscita dell’intero Piano – quello della scuola e quello della sanità – sono affidati, rispettivamente, a Rocco Scotellaro  e a Rocco Mazzarone.

Mentre a quest’ultimo, amico di Rossi-Doria da tempo, va riconosciuto il merito di aver svolto sin da quegli anni il ruolo niente affatto trascurabile di tramite intelligente tra i ricercatori – italiani e stranieri – e la Basilicata, sì da farla diventare un vero e proprio laboratorio sperimentale, ormai ben noto in tutto il mondo; l’altro, Rocco Scotellaro, è invitato dallo stesso Rossi-Doria nel 1950 a Portici – subito dopo la triste vicenda della sua ingiusta detenzione nel carcere di Matera – perché partecipi all’entusiasmante avventura di quel Piano. Partecipazione che non si sarebbe limitata solo alla già ricordata indagine sulla scuola, pubblicata postuma, ma anche e soprattutto all’utile funzione di  fornire i suoi preziosi suggerimenti come conoscitore diretto ed impegnato di quella realtà, specie nella stesura dei vari capitoli della Relazione Generale finale.

Mentre è in corso l’attività di quel gruppo, in occasione del congresso dell’Istituto nazionale di urbanistica (INU) – presieduto da Adriano Olivetti – sulle esperienze di pianificazione  regionale in Italia (Venezia, 1952), lo stesso Sebregondi è invitato a scrivere l’introduzione del volume degli atti. In essa, tra l’altro, partendo dal presupposto – del resto, convalidato da un ampio materiale raccolto nelle varie regioni meridionali, oltre che, s’intende, in Basilicata, attraverso il Piano SVIMEZ – che “la pluralità di soluzioni urbanistiche che si rendono necessarie in corrispondenza delle varie fasi di un processo di sviluppo regionale trovano riscontro nelle diversità di soluzioni che si richiedano per l’intervento in una zona piuttosto che in un’altra”  e che “la necessità di rispondere alla duplice e, almeno apparentemente, contrastante esigenza della diffusione e della concentrazione degli investimenti ha sollecitato a riconoscere la fondamentale necessità di individuare, per ogni investimento, una precisa funzionalità rispetto al tutto, ossia di creare un nesso organico tra i vari elementi e aspetti dell’intervento”, egli giunge ad individuare tre fondamentali tipi di aree di intervento, rispettivamente definite di “sviluppo integrale”, di “sviluppo ulteriore” e di “sistemazione”.

Come Rossi-Doria, anche Sebregondi attribuisce un particolare valore alla “presenza di forze sociali che coscientemente diventino portatrici degli interessi, non in quanto opposizione rivoluzionaria agli interessi dominanti, ma in quanto politicamente capaci di riuscire ad affermare linee generali di indirizzo all’azione di governo, democraticamente mature a far articolare l’intervento pubblico in rapporto alla varietà delle situazioni ambientali, ed efficaci nel suscitare nelle singole comunità iniziative delle popolazioni che concretino comportamenti morali, culturali e sociali di partecipazione alla realtà in sviluppo”.

Purtroppo il Piano lucano SVIMEZ non ha alcun seguito sul terreno operativo ma influisce notevolmente sull’impostazione metodologica e, per certi aspetti, anche politica della pianificazione regionale. Per approfondire le problematiche scaturite dall’elaborazione del Piano, Sebregondi partecipa a iniziative di ricerca fuori della SVIMEZ e prende contatti anche con gruppi di studio di altri Paesi impegnati sui temi dello sviluppo.

Uscito nel 1950 dal Pci, insieme a Balbo, Scassellati, Mario Motta, Claudio Napoleoni e Sandro Fè d’Ostiani, per obbedire alle indicazioni della Chiesa che aveva scomunicato i cattolici aderenti a quel partito, partecipa coi suoi compagni e con altri alla costituzione di un gruppo interdisciplinare che si dà il compito di ripensare le diverse discipline in vista di una rifondazione del quadro culturale ed economico nazionale, una fucina per la formazione di una nuova classe dirigente. Nel gruppo, Sebregondi è responsabile per l’area sociologica. Egli non ha una preparazione specifica su tale materia. La sua curiosità intellettuale lo porta, dunque, ad attingere direttamente alle esperienze di altri Paesi. Dopo una prima produzione, il gruppo è costretto a rinunciare alle sue ambizioni per alcune divaricazioni interne e per contrasti con i dirigenti democristiani e la gerarchia ecclesiastica.  Nel 1953, il gruppo si scioglie e in parte si frammenta.

Nel frattempo, lo studioso si mette in contatto con la rivista francese Economie et Humanisme  – diretta da padre Louis Joseph Lebret e specializzata sui temi del sottosviluppo a livello mondiale – per approfondire le sue teorie sullo sviluppo del Mezzogiorno. Lo scambio tra Sebregondi e il religioso è molto fecondo soprattutto perché permette allo studioso italiano di cimentarsi sui temi dei movimenti sociali nei Paesi in via di sviluppo e di approfondire le possibilità di una loro più rapida espansione anche nei Paesi avanzati. Egli arriva a teorizzare un nuovo sistema di governance, in cui si intrecciano: da una parte, lo Stato garante e promotore dello sviluppo e le comunità organizzate con forme specifiche di rappresentanza diretta e, dall’altra parte, i diversi livelli della democrazia rappresentativa. Scrive a Lebret: “Si tratta di promuovere quella nuova forma di organizzazione dei cittadini che solleciti, guidi ed esprima il formarsi di un’autonoma capacità tecnica, politica e giuridica dei cittadini stessi a concorrere alla determinazione della politica di sviluppo economico e sociale”. La modernità di tale visione è sorprendente: un modello articolato di governance di questo tipo sarà sperimentato e in parte attuato nelle politiche di coesione regionale dell’Unione Europea.

Terza Generazione

 Terza Generazione è il nome di una rivista atipica, che ha come sottotitolo “Mensile d’inchiesta e d’iniziativa”. Essa avvia le pubblicazioni nell’ottobre 1953 per cessarle con il n. 12 nel settembre 1954. Nasce dalla confluenza delle due più importanti correnti politiche, culturalmente motivate, del mondo cattolico: la “sinistra cristiana” e il “dossettismo”. La rivista viene finanziata dalla Dc di De Gasperi, che non chiede alcuna contropartita, e cessa le pubblicazioni con l’avvento di Fanfani alla leadership democristiana, il quale condiziona invece il finanziamento all’adesione alla sua posizione politica.

L’impegno della rivista è profuso nel tentativo di conoscere le diversità territoriali del Paese mediante una nuova strumentazione sociologica come le inchieste sul campo. Precorrendo la ricerca-azione, tali inchieste devono consentire di capire quali siano le reali condizioni di vita di una comunità o degli abitanti di un’area territoriale. La specificità di questo percorso consiste nel coinvolgere attivamente e responsabilizzare il più possibile i giovani del luogo che si mostrano interessati alle proposte della rivista.

Raccontando quell’esperienza in un intervista raccolta dal figlio Alessandro, Scassellati  afferma: “Abbiamo cominciato a scoprire cosa fosse il Mezzogiorno solo negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra. Prima, l’Inchiesta Jacini e le indagini successive sulla vita delle regioni e delle campagne risultavano delle cose ‘curiose’. È con Manlio Rossi-Doria che abbiamo incominciato a capire che il Mezzogiorno era fatto di vari pezzi e connotazioni: che c’era quello con l’albero, che c’era quello delle città, che c’era quello del latifondo padronale, che c’era quello del latifondo contadino. È stato Rossi-Doria che ci ha raccontato quel poco di sociologia rurale che è esistito prima degli anni Settanta (…). Questa situazione di diversità veniva considerata come una realtà di cui il Paese non poteva gloriarsi: perciò di essa non esisteva documentazione, di essa non si faceva cultura, non esistevano libri che descrivessero le articolazioni diverse del Paese”.

Alessandro Scassellati ha poi ricostruito le basi teoriche dell’approccio sociologico di Terza Generazione partendo dall’apporto dei due gruppi che avevano fondato la rivista. Per la “sinistra cristiana” è Sebregondi a dare il maggiore apporto con la sua idea di sviluppo, di tipo autopropulsivo, priva di economicismo e intesa come reinvenzione del modello culturale tradizionale di una determinata società. Per il gruppo dossettiano è, invece,  Ardigò a dare maggiormente un contributo derivante dalla sua attività pratica-sperimentale nel servizio sociale dell’Ente per la riforma fondiaria della Maremma, presieduto da Medici.

La rivista pubblica in tre fascicoli l’inchiesta sui giovani del Molise e dell’Abruzzo,  condotta da Agostino Paci e dà conto dell’autoinchiesta dei giovani di Rovereto, in Trentino, condotta in collegamento con il gruppo centrale della rivista. All’inchiesta territoriale segue la costituzione nel 1954 di una cooperativa di produzione e lavoro che prende in affitto un terreno di proprietà del comune di Isera. La cooperativa ha come scopo sociale la sperimentazione di nuove colture e la ricerca di nuove combinazioni produttive in agricoltura. Vi lavorano sette giovani fino allo scioglimento nel 1961. Quando la rivista chiude, il gruppo di ricerca, composto da Scassellati, Ugolini, Paci, Paris e altri, che aveva realizzato le inchieste e animato le iniziative locali, continua ad operare sotto il patronato del Sottosegretariato Nazionale della Gioventù (fondato dal Movimento giovanile della DC) con cui aveva iniziato a collaborare nella seconda metà del 1954. Il Segretariato è beneficiario di risorse finanziarie provenienti  dall’Aiuto Svizzero (un’organizzazione ticinese che finanzia iniziative nell’Italia meridionale, tra l’assistenza e la promozione economica) e dall’inizio del 1955 costituisce un “ufficio iniziative”  che viene diretto da Scassellati fino al 1958. Grazie alle risorse finanziarie del Segretariato, il gruppo riesce a realizzare in quegli anni dei piccoli progetti di “sviluppo di comunità”  che solitamente portano alla nascita dal basso di cooperative di produzione e lavoro. Inchieste ed interventi vengono portati avanti nelle regioni depresse del Mezzogiorno e del Centro Nord e nella periferia romana.

Movimento di Comunità

L’individuazione della comunità-territorio come ambito entro cui analizzare i problemi e intervenire per affrontarli stimola il Gruppo di Portici a ricercare un confronto con altre esperienze, come il Movimento di Comunità animato da Adriano Olivetti e da un gruppo composito di sociologi, architetti, scrittori, scienziati della politica e dell’organizzazione industriale, psicologi del lavoro (Luciano Gallino, Paolo Volponi, Franco Ferrarotti, Giorgio Fuà, Ludovico Quaroni, Bruno Zevi, Furio Colombo, Tiziano Terzani). L’occasione si presenta quando il filosofo e storico delle culture Friedrich George Friedmann anima una ricerca finanziata dall’UNRRA-Casas sui Sassi di Matera che porterà alla costruzione del famoso villaggio “La Martella”. Del gruppo di studio fanno parte Eleonora Bracco (archeologa), Lidia De Rita (psicologa), Federico Gorio (architetto), Rigo Innocenti (assistente  sociale), Giuseppe Isnardi (geografo), Gilberto Antonio Marselli (sociologo), Rocco Mazzarone (medico), Francesco Nitti (storico), Giuseppe Orlando (economista) e Tullio Tentori (antropologo). La segreteria è affidata a Giovambattista Martoglio mentre il coordinamento a Ludovico Quaroni (Urbanista) dell’INU, che è presieduto da Adriano Olivetti. L’esperimento partito nel 1951 ha un tale successo che si ripeterà nella vicina Grassano, per iniziativa di Gaetano Ambrico, parlamentare democristiano, e successivamente nel Canavese, per lo studio della comunità di Ivrea, e in altri centri lucani.

Da una committenza della sezione per le ricerche sociali dell’UNESCO prendono vita nel 1954 anche tre ricerche su comunità rurali interessate alla riforma agraria, rispettivamente affidate all’Istituto  di economia e politica agraria di Portici su Scandale, in provincia di Catanzaro; a Gino Giugni, su Gravina, in provincia di Bari; ad Achille Ardigò (tramite l’Istituto di Portici) su Cerveteri, in provincia di Roma.

 

Competenze tecnico-scientifiche e saperi esperienziali degli agricoltori: un rapporto peculiare

Un aspetto importante da sottolineare è che la modernizzazione del settore primario si è alimentata per lungo tempo di un rapporto molto stretto tra agricoltori e cultura agronomica ed economico-agraria. E a consolidare tale relazione  tra cultura esperienziale e cultura scientifica emerge, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, il ruolo centrale dello Stato sia per quanto riguarda l’istruzione agraria che per quanto concerne la ricerca, la sperimentazione e la divulgazione delle innovazioni agrarie; ambiti fondamentali della politica agricola insieme alla bonifica e alle politiche di mercato.

Siffatto ruolo centrale dello Stato si mantiene saldo anche con la Rivoluzione verde, cioè con l’affermazione della chimica, della meccanica e della genetica come ambiti tecno-scientifici che determinano la forte crescita della produzione agricola nel Novecento. Questa consapevolezza di una responsabilità e di un ruolo dello Stato nell’organizzazione di una istruzione agraria, con l’obiettivo principale di formare tecnici per l’agricoltura, e nella istituzione di centri sperimentali e divulgativi si afferma nella seconda metà dell’Ottocento in Italia, in Francia, in Germania e negli Stati Uniti.

La stessa cosa non si verifica però in Inghilterra e in Olanda dove l’investimento in ricerca e sviluppo resta sostanzialmente a carico dei privati e dove si diffonde molto più tardi l’insegnamento agrario. E ciò forse si spiega proprio perché in questi Paesi le innovazioni erano avvenute in anticipo e soprattutto per iniziativa dei privati. La differenza tra la situazione delle istituzioni pubbliche della conoscenza in Italia e quella esistente in Francia, Germania e Stati Uniti è che in Italia si stabilisce fin dall’inizio una connessione tra istituzioni della conoscenza, con una accentuata dislocazione decentrata, e politiche territoriali con un approccio sistemico e tendenzialmente multidisciplinare, dalla bonifica alle politiche per la montagna, dalla riforma agraria alle politiche per la tutela delle acque e del suolo.

 

La tragica svolta dell’industrializzazione forzata dall’alto

Gli storici economici sono soliti distinguere tre fasi nel lungo periodo di attività della Cassa del Mezzogiorno. La prima è quella della realizzazione delle infrastrutture, che dura dall’istituzione dell’ente nel 1950 fino al 1957. La seconda fase sarà quella tra il 1957 e il 1973, caratterizzata dal processo di industrializzazione. La terza fase, dal 1973 al 1984,sarà infine marcata dal cambiamento della missione della Cassa da “tecnostruttura” autonoma a campo della mediazione politica e della frammentazione degli interventi, fino alla sua soppressione. In genere, gli economisti e gli storici economici tendono a considerare la seconda fase quella più significativa. La mia opinione è che la fase d’oro della Cassa è quella iniziale in cui si realizzano opere infrastrutturali, dalle  fognature agli acquedotti e alla viabilità, e si irrigano e bonificano oltre 70mila ettari di campagne. La seconda fase sarà, invece, un fallimento.

Perché esprimo questo giudizio? Vediamo innanzitutto i fatti. Al 2° Congresso della Cassa, che si svolge nel 1953 a Napoli, qualche mese dopo le dimissioni di De Gasperi da Presidente del Consiglio e il suo ritiro dalla politica, Pasquale Saraceno lancia la svolta industrialista della Cassa. La proposta è fatta propria, a nome del governo Pella, dal Ministro per il Mezzogiorno, Pietro Campilli, e condivisa da Giulio Pastore, segretario della Cisl, e da Giuseppe Di Vittorio, segretario della Cgil. La relazione Saraceno contiene le linee dello Schema decennale di sviluppo del reddito e dell’occupazione, noto come schema Vanoni, dal nome del Ministro del Bilancio che lo propone all’approvazione del Consiglio dei ministri alla fine del 1954. Nel 1956 viene istituito il Ministero delle Partecipazioni Statali per dare unitarietà di direzione alle imprese a partecipazione statale a livello di governo. Segni, all’epoca presidente del Consiglio, dichiara che il Ministero si sarebbe dovuto inquadrare nella più generale politica economica del Paese, con le finalità espresse dallo Schema Vanoni in riferimento “allo sviluppo, alla produzione, all’occupazione e alla soluzione del problema meridionale”. Nel 1957 si approva la legge per l’industrializzazione del Mezzogiorno mediante i consorzi industriali, gli incentivi e le Partecipazioni statali.

La proposta Saraceno è dettata dalla volontà di assicurare subito la crescita e non è inserita in una visione strategica dello sviluppo. È mossa dall’idea di accrescere il flusso delle esportazioni sui mercati dei Paesi industrializzati e di fare assumere, quindi, all’industria italiana struttura e caratteri di un’economia opulenta. Essa si fonda sulla certezza cieca che la presenza di grandi impianti industriali di Stato nel Mezzogiorno avrebbe stimolato la diffusione di una prassi e di una cultura imprenditoriale. Non prevede alcun impegno concreto nell’attivare l’iniziativa privata e le risorse locali. Essa si nutre della fiducia taumaturgica nella capacità dei grandi gruppi industriali di creare in pochissimi punti ben delineati i fattori esterni richiesti dall’impianto di un grande stabilimento. E dunque non lascia trasparire alcuna volontà di creare, in modo diffuso, condizioni propizie allo sviluppo economico.

L’opzione dell’industrializzazione forzata dall’alto passa trasversalmente in tutti i partiti che temono, con motivazioni solo parzialmente diverse, il dramma dell’emigrazione di massa verso il triangolo industriale, causa di forti disagi sociali e imprevedibili mutamenti politici. La Dc vede nell’insediamento dell’industria di Stato al Sud un’opportunità per garantirsi il consenso mediante le assunzioni clientelari. Mentre il Pci vede nella nascita di una classe operaia meridionale l’elemento decisivo per insediarsi più stabilmente tra le popolazioni.

Le voci che si levano contro quella proposta, tra cui Olivetti, Rossi-Doria, Ceriani-Sebregondi e Ardigò, sono messe a tacere. E nel momento in cui la proposta diviene la grande scelta strategica per il Sud, si delegittima e progressivamente marginalizza un’intera cultura economica, sociale e politica – affermatasi in Italia dalla seconda metà dell’Ottocento – che considera lo sviluppo inevitabilmente “autoctono”, cioè fondato sulla migliore combinazione dei fattori produttivi presenti in un determinato territorio e capace di tener conto dei condizionamenti sociali, politici e istituzionali. Viene, in sostanza, scartata l’idea di articolare l’intervento nel Mezzogiorno per contesti e per aree di sperimentazione, attraverso una maturazione guidata dalla ricerca e dalla crescita dei processi educativi e formativi, mediante il costante coinvolgimento della società civile.

Occorre precisare, per evitare ogni equivoco, che la scelta dell’industrializzazione forzata dall’alto è contrastata da Rossi-Doria e dagli altri oppositori non già perché essi sottovalutano l’opportunità di uno sviluppo industriale del Mezzogiorno. Su tale visione si richiamano alle posizioni espresse mezzo secolo prima da Francesco Saverio Nitti, proprio durante il periodo del suo insegnamento a Portici, quando lo statista lucano elabora per il Mezzogiorno una politica economica moderna capace di trarre vantaggio dall’emigrazione, particolarmente consistente in quegli anni, e di promuovere sia pur limitati processi di industrializzazione. Rossi-Doria, Sebregondi, Olivetti e Ardigò sono strenui assertori dello sviluppo autoctono e auto-propulsivo e rifuggono dalle visioni economicistiche e dalle analisi esclusivamente quantitative, mostrando invece attenzione alle componenti immateriali dello sviluppo. Essi condividono l’idea che lo sviluppo abbia bisogno “in primo luogo di un principio motore, di motivazioni ideologiche che sollecitino a volere lo sviluppo, e quindi a procurarsi e a utilizzare i mezzi propri e altrui per attuarlo”.

Come si è detto, anche Saraceno inizialmente sembra condividere questa impostazione e affida a Sebregondi la direzione della “sezione sociologica” della SVIMEZ.  Ma poi tra i due si apre una divaricazione sull’idea di sviluppo che presto li conduce all’aperta rottura. E nei primi mesi del 1958 Saraceno allontana lo studioso dall’Associazione. Sebregondi assume un incarico a Bruxelles e nel giugno dello stesso anno muore a 41 anni. La “sezione sociologica” della SVIMEZ viene affidata alla direzione di Giuseppe De Rita che nel 1963 abbandona l’Associazione e fonda il CENSIS.

I sostenitori dell’industrializzazione forzata dall’alto fanno leva sull’emotività, agitando le previsioni dei flussi migratori che sono indubbiamente allarmanti. Ma evitano di spiegare che l’esodo rurale è un processo sostanzialmente “liberatore” – per usare un’espressione di Rossi-Doria – che avrebbe messo definitivamente in crisi l’intera organizzazione tradizionale dell’agricoltura meridionale e obbligato a porre in termini completamente nuovi i problemi agricoli nel Mezzogiorno. La fase dell’esodo dalle campagne, qualora fosse stata accompagnata da efficaci politiche territoriali di sviluppo, avrebbe indotto spontaneamente e nel giro di poco tempo un controesodo, cioè un esodo urbano, da sostenere e accelerare per raggiungere un riequilibrio. Ma sarebbe stato necessario salvaguardare la cultura agricola e rurale, per evitare che subisse un processo di erosione e prevaricazione da parte della cultura urbana e industriale.

È Achille Ardigò a respingere con fermezza – in quegli anni – l’atteggiamento prevalente della cultura italiana nei confronti del mondo contadino. Egli contesta l’ideologia di chi percepisce la trasformazione di quella forza sociale, che era portatrice di una cultura non riducibile alla cultura urbana e industriale, come un processo necessario e ineludibile della modernizzazione, senza alcuna possibilità di mediazione e adattamento. Una tesi ritenuta aberrante dal sociologo poiché porta a ritenere la stessa modernizzazione dell’agricoltura, laddove viene colta e considerata come elemento capace di contribuire allo sviluppo del Paese, necessariamente in conflitto con la tradizione e, soprattutto, con il bagaglio di valori comunitari e relazionali e di conoscenze riferite al rapporto uomo-natura, di cui la cultura contadina è portatrice. E nel contestare queste opinioni prevalenti, Ardigò invita a favorire l’incontro fecondo tra la cultura urbana e industriale con quella rurale in forme innovative da progettare e realizzare, collegandosi idealmente ad analoghe transizioni già avvenute nella storia.

La rottura del sistema della conoscenza in agricoltura alla base della crisi ecologica

La deriva dell’industrializzazione forzata dall’alto e l’abbandono dell’approccio dello studio di comunità per le politiche di sviluppo, emarginando le competenze nel campo sociologico, antropologico ed educativo, hanno conseguenze catastrofiche nell’impegno dei governi sui problemi dell’agricoltura.

Da quel momento si attenua, fino a diventare del tutto labile, l’impegno dell’Italia nel fissare le linee di intervento della Politica Agricola Comune (PAC) nei primi e cruciali negoziati seguiti alla Conferenza di Stresa del 1958. I nostri governi subordinano senza remore gli interessi dell’agricoltura italiana ad altre esigenze politiche ed economiche. Si tratta di una plateale sottovalutazione dell’importanza che continua ad avere l’agricoltura anche in una società industriale. Atteggiamento che non può non destare stupore e ilarità negli stessi nostri partner europei, i quali avevano vissuto la trasformazione da Paesi prevalentemente rurali a Paesi prevalentemente industriali con molto anticipo sull’Italia, ma non avevano mai rinunciato per questo alla difesa delle proprie agricolture.

E da quel momento avviene anche un altro fatto gravissimo: si riduce sempre più il sostegno all’istruzione agraria, alle attività di ricerca e sperimentazione e a quelle divulgative. La gran parte dei tecnici che escono dalle scuole e dalle facoltà di agraria vengono assunti in misura maggiore rispetto al passato nelle industrie produttrici di mezzi tecnici per essere adibiti alle attività di assistenza tecnica e di divulgazione agli acquirenti. E così gli agricoltori diventano destinatari passivi di tecnologie senza potersi giovare di strutture pubbliche capaci di fare da filtro nel rapporto tra questi e le industrie produttrici di mezzi tecnici. I servizi della Coldiretti non sono orientati all’interesse degli associati ma a quello della Federconsorzi e delle aziende meccaniche, chimiche e sementiere con cui questa opera in esclusiva. L’Alleanza dei contadini non è adeguatamente attrezzata per svolgere attività di formazione e assistenza tecnica. I tentativi di Sereni di aprire la rivista Riforma agraria, di cui è direttore, alla collaborazione dei tecnici e degli economisti agrari, come Aldo Pagani e Nallo Mazzocchi-Alemanni, non hanno un esito positivo.

Il venir meno progressivamente di un impegno pubblico nella trasmissione del progresso tecnico e nelle politiche territoriali che guardano non solo al sostegno agli investimenti ma anche alle attività educative e di crescita culturale ai fini di uno sviluppo della società locale inteso come autosviluppo delle popolazioni locali e come bisogno complesso di continua combinazione di più fattori, costituisce una delle cause di fondo della rottura dell’equilibrio tra visione produttivistica dell’attività agricola e visione conservativa delle risorse ambientali. Una rottura originata dall’erosione progressiva delle relazioni interpersonali nelle campagne e dalla solitudine in cui è lasciato l’agricoltore.  Si può affermare, in conclusione, che, almeno in Italia per le vicende che ho tentato di raccontare, la crisi ecologica, da cui ancora non si vedono credibili vie d’uscita, è in parte da addebitare anche all’abbandono di quel filone di pensiero e di iniziativa che parte da Cattaneo e individua nella coesione sociale una premessa, non l’esito dello sviluppo. Un giudizio che può essere utile per ripensare l’idea di innovazione e di sviluppo, rifondandola sui beni relazionali e sul capitale sociale.

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