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Intervento al Convegno "Agricoltura tra Mezzogiorno ed Europa" svoltosi a Telese Terme il 1° settembre 2012 per iniziativa di Acli Terra
Da tempo il Mezzogiorno non compare più tra i riferimenti nell’analisi delle difficoltà dell’economia italiana e nella proposta degli strumenti per farvi fronte. Grazie alle Acli, che per il secondo anno consecutivo organizza questo appuntamento, il Mezzogiorno diventa un tema di discussione.
Nel determinare questa marginalità pesano sicuramente i fallimenti del passato. Ma ora con la crisi che incombe e la necessità di tornare a crescere, dobbiamo fare in modo che il Mezzogiorno torni ad essere al centro del dibattito pubblico. Il nostro Sud è, infatti, il luogo dove si decide se l’Italia crescerà o meno nei prossimi anni.
Senza crescita la società diventa più cattiva e più triste; ognuno si chiude nella difesa del suo interesse egoistico, facendo venir meno solidarietà e tolleranza.
Le società moderne sono più avide di crescita che di ricchezza. Siamo in tanti a pensare che si vive meglio in un paese che sta crescendo e in fretta anziché in un paese già ricco e ormai in stagnazione. C’è un nesso più forte tra felicità e crescita che tra felicità e ricchezza.
Noi italiani da troppo tempo non facciamo l’esperienza condivisa di immersione in una società che cresce rapidamente.
Certo. Ci vuole una crescita che crea benessere e non soltanto aumento del Pil: una crescita che è anche maturità, consapevolezza di dover adottare stili di vita e modelli di produzione e consumo più responsabili. Una crescita che diventa sostenibile se si permette all’agricoltura di dare il suo contributo essenziale non già accrescendo la quantità di produzione agricola, bensì accrescendo l’innovazione sociale nelle campagne, il sistema della conoscenza in agricoltura, la capacità di creare reti che valorizzino prodotti agroalimentari e servizi forniti dalle campagne rurali e urbane in mercati differenziati sia a livello locale che globale.
Il protagonista di questa nuova crescita non dovrà essere solo il produttore ma soprattutto il consumATTORE. Dobbiamo essere noi cittadini, con le nostre scelte di consumo, a determinare una crescita che non comporti distruzione di beni comuni.
Ma la crescita è indispensabile per evitare il fallimento del debito pubblico e per ridurre le disuguaglianze e guardare al futuro con speranza per essere di nuovo felici.
Dobbiamo, tuttavia, spezzare tre circoli viziosi che ci impediscono di crescere.
Il primo riguarda l’Italia ed è tra economia stagnante e società ripiegata su se stessa.
Il secondo, più pernicioso, è presente nel Mezzogiorno e agisce tra una debole cultura civica e una politica (centrale e locale) che basa il suo consenso sulla distribuzione di benefici particolaristici.
Il terzo, ancor più deleterio, si annida nell’agricoltura tra una PAC che resta protezionistica e centrata sulla difesa di rendite di posizione e interventi non finalizzati, e un neonazionalismo autarchico in Italia, che esclude ogni collaborazione con le agricolture di altri paesi, considerate come nemiche da combattere, e tenta ostinatamente di riprendersi quella sovranità nazionale che un tempo eravamo disposti a sacrificare per l’obiettivo di un ideale collettivo europeo e mondiale.
Come si spezzano questi circoli viziosi?
Solo con scelte coraggiose anche quando possono apparire impopolari.
Prendiamo la proposta di riforma della PAC così come appare negli schemi di regolamento predisposti dalla Commissione. Essa è in perfetta dissociazione coi grandi obiettivi enunciati nei documenti originari e presta il fianco a due obiezioni di fondo:
1) è protezionistica perché non si fa carico degli squilibri mondiali. Impedisce di fatto ai paesi poveri di sviluppare le proprie agricolture e nutrirsi. Lo afferma senza mezzi termini il relatore Onu sulla sicurezza alimentare;
2) è del tutto contraddittoria con gli obiettivi del documento dei 12 Paesi europei “Un piano per la crescita in Europa”. Si provi a confrontare ciascuna misura della futura PAC con gli obiettivi sulla crescita e non se ne troverà nemmeno una che possa in qualche modo collegarsi ad essi.
Tre aspetti della proposta di riforma della PAC appaiono del tutto insostenibili.
Il primo è la conferma dei pagamenti diretti al centro della PAC. Per quale obiettivo ? Sostegno al reddito o agli investimenti? Pagamento per i beni pubblici o attenuazione degli effetti della volatilità dei prezzi? L’obiettivo pare essere solo quello di conservare la vecchia distribuzione dei fondi e le vecchie posizioni di rendita. L’effetto è quello di ripiegare gli agricoltori su stessi, di affievolire il loro spirito imprenditoriale, di dissuaderli dall’accettare la sfida del mercato e di non stimolarli ad associarsi. Lo strumento dei pagamenti diretti è il principale responsabile dell’erosione del capitale sociale nelle campagne perché, non essendo associato in modo organico alla produzione di un bene collettivo, lede in modo spesso irrimediabile lo spirito civico. Ma la misura presenta anche un’altra grave conseguenza, messa in risalto dalla Corte dei Conti europea: non dà la possibilità di verificarne l’efficienza e l’efficacia; e ciò per il semplice motivo che, in presenza di un obiettivo indefinito, tale verifica è impossibile. Il Mezzogiorno avrebbe, dunque, tutto da guadagnare se si passasse da un intervento indifferenziato come questo ad un intervento mirato a precisi obiettivi di sviluppo territoriale. Si tratta di dirottare parte dei fondi dai pagamenti diretti allo sviluppo rurale.
Il secondo aspetto criticabile è la scelta dell’ettaro come espressione sintetica del diritto al sostegno. Con questo criterio il Mezzogiorno è doppiamente penalizzato: si premiano, infatti, le agricolture estensive e quelle che producono meno occupazione e meno valore aggiunto. Consci di questo limite, si vuole correre ai ripari con lo spacchettamento (giovani, greening e zone svantaggiate), ma tale misura suscita molte perplessità perché non si è sicuri che potrà funzionare. E la regionalizzazione appare del tutto irrazionale con la rigidità dello strumento.
Il terzo aspetto del tutto insostenibile è la scelta di porre lo sviluppo rurale ai margini della PAC. S’interrompe, infatti, il graduale spostamento di risorse dal primo al secondo pilastro (sviluppo rurale), che avveniva da quando è stata varata Agenda 2000. Sicché, anche le grandi sfide (cambiamenti climatici, biodiversità, bioenergia, acqua) passano in secondo piano. Inoltre, si aggiunge al secondo pilastro la gestione del rischio, che dovrebbe più razionalmente stare nel primo. Per il Mezzogiorno questo terzo aspetto della riforma è un’autentica iattura. Si dimentica, infatti, che lo sviluppo rurale in Europa è stata un’idea lanciata proprio dall’Italia per consentire all’agricoltura meridionale di fronteggiare l’allargamento della Comunità agli altri Paesi mediterranei. E paradossalmente proprio adesso che i mercati si sono ampliati rinunciamo all’unica politica che ci può mettere in grado di fronteggiarli.
La riforma della PAC proposta dal Commissario Ciolos è in una condizione di stallo.Ci sono grandi incertezze che dipendono dalle soluzioni che avrà la crisi economica e finanziaria. E c’è il fondato rischio che la PAC continui ad essere vista dalle istituzioni politiche e finanziarie europee come un vincolo da contenere o una fonte dove attingere i fondi necessari per altre politiche.
Prima che ciò accada, Ciolos fa ancora in tempo a proporre un Piano B, fortemente innovativo e capace di superare le obiezioni di fondo che sono state sollevate da più parti. E L’Italia farebbe bene a richiederlo.
Ci vorrebbe un primo pilastro che ridimensioni i pagamenti diretti e contenga interventi efficaci per la gestione del rischio, a partire dagli effetti della volatilità dei prezzi.
Poi andrebbe prevista una più forte politica di sviluppo rurale per finanziare progetti territoriali che permettano di introdurre un’innovazione sociale in tre grandi ambiti:
1) la creazione di reti che riguardino sia i prodotti alimentari che i servizi (sociali, culturali, ricreativi, turistici, ecc.) e prevedano supporti agli scambi in una logica di competizione collaborativa tra tutti i soggetti della filiera, includendo anche i consumatori mediante la promozione di gruppi d’acquisto. Tali reti non dovrebbero avere un carattere autarchico ma andrebbero finalizzate sia alla creazione di mercati locali differenziati, sia alla nascita di mercati fondati sullo scambio di culture alimentari e che vedano la collaborazione di operatori economici e cittadini di diversi paesi, europei ed emergenti, a partire da quelli che fanno parte dell’area di libero scambio euro-mediterranea;
2) la rivitalizzazione delle aree agricole abbandonate, incominciando da quelle montane, mediante l’insediamento di nostri giovani e di immigrati nei terreni di proprietà pubblica, utilizzando il contratto d’affitto. Ma questa operazione non la deve fare lo Stato perché ha già dato prova di non essere in grado di realizzarla. Lo Stato deve vendere il proprio patrimonio agricolo ai valori di mercato ad una società appositamente costituita, in accordo con regioni e comuni e aperta alla partecipazione del Terzo settore. La società paga il patrimonio finanziandosi sul mercato dei capitali, attraverso l’emissione di titoli garantiti dal valore del patrimonio acquisito. La società dovrà gestire il patrimonio secondo le finalità previste dal proprio statuto, che dovrà contenere i vincoli di destinazione agricola e di inalienabilità;
3) il riconoscimento delle agricolture urbane e periurbane, ponendole al centro di un’azione di bonifica integrale in chiave moderna. Si tratta di disinquinare le aree agricole e di esaltarne le funzioni di servizio per le città e, nello stesso tempo, di coprire la crosta urbana con gli orti in serre fotovoltaiche. Il tutto integrando intelligentemente strumenti urbanistici e programmi di sviluppo rurale.