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Agricolture civili e vicinato nel Mediterraneo

Relazione all'Incontro sul tema "Agricolture civili e vicinato nel Mediterraneo" svoltosi a Lagonegro, nella Sala del Consiglio Comunale, il 23 ottobre 2012, nell'ambito del Programma "U Vicinanzo" - Fondazione con il Sud

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Nulla accade nella sfera delle ricchezze

che non riverberi in essa dalla sfera delle idee

(Carlo Cattaneo) 

Con l’espressione “agricoltura sociale” s’intende un fenomeno molto complesso, caratterizzato dall’intreccio di diversi settori e dalla presenza di differenti soggetti, competenze e modelli di gestione, che variano a seconda dei contesti territoriali, istituzionali e civili e delle risorse disponibili.

L’agricoltura sociale ha molto a che fare con la virtù civile, che è un tratto del carattere di chi la pratica, una disposizione di lungo periodo, una buona abitudine o un habitus da coltivare nel tempo, e da rendere stabile, e che una volta acquisito produce frutti, che sono frutti d’eccellenza.

Dai primi studi del fenomeno in Italia e in Europa, l’agricoltura sociale si può definire come l’insieme di pratiche che producono beni relazionali inclusivi, mediante processi produttivi e beni relazionali propri dell’agricoltura e delle tradizioni civili di fraternità e mutuo aiuto del mondo rurale.

La virtù civile di tali pratiche dipende dal raggiungimento di determinati beni che sono interni alle pratiche stesse; beni non strumentali, quindi, poiché hanno a che fare con lo scopo intrinseco delle pratiche stesse.

Tali beni non sono definiti soggettivamente dall’individuo, ma da una comunità.

Le pratiche si “ricevono”, dunque, da una storia e da una tradizione, che è eccedente rispetto al consenso dei singoli membri di una comunità e si inseriscono in nuove forme di gestione dei beni comuni.

E’ per questo che la pluralità delle pratiche – con cui l’agricoltura sociale si manifesta – arricchisce e caratterizza le reti di economie civili, che tutelano le risorse naturali e valorizzano il paesaggio, il patrimonio culturale dei luoghi e le capacità creative dei soggetti che operano nei territori rurali e periurbani.

Il Mediterraneo come spazio-mondo

Il Mediterraneo è uno spazio dove storicamente  si sono consolidate tradizioni civili di fraternità e mutuo aiuto legate all’agricoltura e al mondo rurale.

Fernand Braudel riteneva che la mediterraneità in sé non esiste perché il Mediterraneo non è un’unità ma un “incontro”, una “relazione”, una “pluralità di elementi eterogenei”, un luogo di scambio e di collegamento (Braudel, 1986). Non è una civiltà “ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre” (Braudel, 1992).

Il Mediterraneo si è sempre concepito come il nodo di una rete che si estende all’infinito, uno spazio-mondo che si dilata progressivamente,  un mondo di nuovi venuti che finisce per accogliere e far propria qualsiasi cosa, come se da sempre fosse stata sua. Autenticamente mediterranei si diranno perciò gli uomini che, avendo compreso questo gioco e le sue regole, “assimilano tutto da tutti, per poi rimanipolarlo a modo loro” (Braudel, 1992).

Ciò che appare “tipicamente” mediterraneo, nelle popolazioni umane come pure nelle piante, si rivela spesso un intruso relativamente recente e ben acclimatato.

Nel Mediterraneo non si vive mai in un luogo da soli, ma in gruppo, quali che siano le dimensioni e la ricchezza di quest’ultimo. Un migliaio di uomini che vivano poveramente del lavoro della terra e dello scambio dei suoi prodotti è sufficiente, nel Mediterraneo, a costituire una città. Anche un borgo modesto si presenta come un microcosmo urbano, nel quale tutta la vita sociale è organizzata in funzione del gruppo.

Sono rimasti disperatamente vuoti i villaggi di colonizzazione creati con la riforma agraria nel cuore della Sicilia e della Basilicata interna al fine di strappare i contadini dalle agrocittà, simbolo della forza d’inerzia del latifondo, e di legarli alle terre loro distribuite. Non basta una casa in mezzo ai campi per fare un podere (Insor, 1979).

La moderna urbanistica è nata nel Mediterraneo, nella Grecia del V secolo, con Ippodamo di Mileto, inventore delle piante a scacchiera. Sia i greci che i romani portavano dovunque arrivavano il proprio modello urbanistico.

Lo spazio pubblico della città, dove l’uomo è tenuto ad apparire, fruisce di una duplice definizione. L’una lo differenzia rispetto alla casa, luogo del riposo e del sonno, ma spazio chiuso, privato, femminile, difeso e da difendere; l’altra rispetto al “paese piatto”, al “paese vuoto” della campagna, spazio aperto, ma luogo del lavoro e della natura. Esso si impone come lo spazio dell’azione senza lavoro: luogo del rituale e della festa, del gesto e dello spettacolo, dei piaceri e dei giochi.

Il vero centro sociale è situato nella piazza dove sfocia tutta la circolazione confusa e caotica delle viuzze. Una piazza per ogni quartiere, per ogni comunità etnica o religiosa; una piazza per ogni funzione, dal mercato al culto all’assemblea; una piazza dalle dimensioni di una strada – un “corso” – lungo la quale si allineano le case dei ricchi e le botteghe di lusso e dove sfilano processioni e cortei; a ogni piazza, infine, la sua coloritura, aristocratica o popolare. Anche nel più piccolo borgo, è sempre sufficiente uno spazio, anche di modeste proporzioni, vicino alla chiesa o al municipio, con un caffè e qualche albero e un po’ d’ombra, perché gli uomini vi si ritrovino tra loro e diano vita alla piazza.

“Molto più che al clima, alla geologia e al rilievo il Mediterraneo deve la propria unità a una rete di città e di borghi precocemente costituita e notevolmente tenace: è intorno ad essa che si è formato lo spazio mediterraneo, che ne è animato e ne riceve vita. Non sono le città a nascere dalla campagna: è la campagna a nascere dalle città, che è appena sufficiente ad alimentare”  (Braudel, 1992).

Attraverso le città si proietta sul territorio un modello di organizzazione sociale e attraverso le reti di città e di borghi i mercati si ampliano e, coi mercati, l’idea stessa di vicinato supera ogni frontiera.

Il vicinato come adempimento dei doveri verso gli altri

L’idea di vicinato ha a che fare con la reciprocità. Nel senso comune “avere rapporti di buon vicinato” significa stabilire una reciprocità di diritti e doveri tra persone che abitano terre o case contigue.

Nel poema “Le Opere e i Giorni”, Esiodo esorta gli agricoltori a coltivare i doveri di vicinato: “Fatti ben misurare dal vicino ciò che ti occorre, e restituiscigli la stessa misura e anche di più, se lo puoi, avendone in futuro ancora bisogno, tu lo ritrovi pronto” (Esiodo, 1983).

“Vicìnia” e “vicinanza” sono i termini con cui nelle aree alpine si denominano le terre collettive, le comunità, le università agrarie. Il termine “vicinanza” è usato da Boccaccio per indicare “la gente che abita nel proprio rione”. L’idea di “molto vicino” si rende con il termine “prossimo”. Il vicinato è la prossimità.

I recenti fenomeni di smaterializzazione e a-territorialità, indotti dalla globalizzazione, ci hanno fatto perdere il senso del luogo. Occorre riscoprire il senso del Genius Loci, inteso come il ”terzo termine” che sta tra me e il paesaggio che contemplo e che mi contempla, una sorta di ”terzo paesaggio”, una costruzione mentale e culturale che definisce la mia identità. Ma senza feticizzare le radici e blindare la comunità contro lo straniero perché l’identità si riconosce nell’alterità e l’ospitalità è più antica di ogni frontiera.

Il Genius Loci è un “memento” essenziale: “ricorda a un mondo frenetico e smemorato come quello odierno che l’uomo è un albero che si sprigiona, al modo di una fiamma, in due sensi. Ha bisogno di cielo, di aria, di orizzonti e di paesaggi e nello stesso tempo deve mettere le radici nel profondo della terra, succhiarne i liquidi vitali, garantirsi così la sopravvivenza e la creatività” (Ferrarotti, 2009).

Identità è, dunque, alterità e rovesciamento della prossimità. Nelle culture del Mediterraneo l’idea di vicinato e di prossimità non ha, infatti, a che fare con la geografia ma coi doveri di reciprocità nei confronti degli altri.

La parabola del samaritano

A questa idea di vicinato e di prossimità ricorre il Premio Nobel per l’economia, Amartya Sen per fuoriuscire dalla dimensione nazionale e affrontare i problemi della giustizia nella dimensione globale. Egli ha bisogno di superare l’idea di mutuo vantaggio, che non spiega molte azioni che le persone compiono. Noi siamo legati gli uni agli altri da tanti fattori: la letteratura, la musica, le arti, il teatro, la religione, le cure sanitarie, la politica, l’informazione e altro ancora. E tali elementi legano le persone ovunque esse si trovino nel mondo senza che vi sia necessariamente una strumentalità nella relazione.

Sia l’idea di equità che quella di imparzialità hanno bisogno di una nuova idea di prossimitànon legata alla vicinanza geografica. Ed è in questo ambito che Sen prende come testo di riferimento – da un versante prettamente filosofico – la parabola evangelica del samaritano per fondare un’idea di prossimità nella teoria democratica (Sen, 2010) .

Normalmente la prossimità – come del resto la fraternità – è stata intesa come prossimità geografica, etnica, affettiva, culturale: si deve amare il nostro prossimo, e  quindi si ama di più il prossimo rispetto al meno prossimo. Ma questa idea di prossimità cozza con il bisogno di imparzialità e universalità necessaria ad una corretta visione della giustizia, che deve estendersi ben oltre i confini geografici ed etnici.

Nel racconto evangelico il prossimo dell’uomo imbattutosi nei briganti sarà alla fine il samaritano, e non il levita o il sacerdote, due persone espressioni di prossimità legate alla vicinanza, alla religione, all’etnia. Il samaritano diventa prossimo, per Gesù, perché siprende cura di quell’uomo vittima, e quel samaritano è un prossimo nuovo poiché va oltre tutte le altre classiche prossimità (i samaritani erano un popolo diverso e nemico di Israele), oltre ovviamente l’idea di mutuo vantaggio.

Gesù chiede allo scriba di rispondere su chi fosse stato in quel contesto il prossimo dell’uomo ferito, e questi risponde: colui che lo ha aiutato.  E quello era esattamente ciò che Gesù voleva dire. Il dovere verso i prossimi non è confinato soltanto a coloro che vivono accanto a noi.

La maggior parte dei commenti al samaritano del Vangelo di Luca trae dalla parabola una generica indicazione morale per la sollecitudine universale, senza soffermarsi sulla critica che questa esprime alla prossimità circoscritta, che è il cuore del racconto.

La prossimità come paradigma dell’agricoltura mediterranea

L’agricoltura mediterranea è fortemente legata alla dimensione della prossimità, sia nell’accezione di Genius loci che di rete proiettata verso l’economia-mondo.

Il termine “agricoltura” deriva dal latino “agri-cultura”. L’agricoltura è l’arte di coltivare la terra.

Per i popoli mediterranei la “terra” non è solo lo spazio intorno ad un centro abitato, ma è il borgo o la contrada in cui i contadini scambiavano i propri prodotti e vendevano il proprio lavoro, da dove partivano la mattina per andare in campagna, ma dove rientravano la sera. Da noi la “terra” è il paese (da “pagus”, villaggio) dove usare e mantenere in vita le opportunità materiali, sociali e interpersonali del territorio; è lo spazio del coltivare, del costruire e dell’abitare senza distinguere l’urbano dal rurale. Nelle culture mediterranee la “terra” è insomma la comunità che soddisfa i bisogni delle persone mediante le pratiche reciprocamente solidali e la cura dei beni di tutti.

La civiltà materiale del Mediterraneo è fondata sull’economia del dono e del baratto, sull’insediamento urbano, sulla pluriattività (figure miste, lavori multipli) e sulle reti interpersonali di mutuo aiuto.

Quando poi le attività economiche sono cresciute, si è formato il mercato. Un’economia di mercato paritaria, che, secondo la lezione di Fernand Braudel, precede il capitalismo. Esso si struttura, infatti, non tanto sullo scambio ma sull’accumulazione. E questo passaggio avviene quando nascono le grandi città e gli Stati nazionali.

In origine il mercato è società civile che si autorganizza sulla base dello scambio. La moneta non è merce ma unità di conto e strumento di scambio e i mercati finanziari svolgono un ruolo di servizio negli scambi commerciali. Le fiere di cambio nascono in Italia nel XII secolo ma raggiungono il livello di attività più intensa nel 1500. Esse operano sulla base della lettera di cambio, una “trovata” italiana che rivoluziona le transazioni commerciali. E il tutto è organizzato in forme che si possono definire cooperativistiche. Un sistema finanziario sovranazionale che funziona perfettamente.

L’agricoltura mediterranea  è un modo di vivere e, al tempo stesso, un’attività economica che produce “beni relazionali”.

I beni relazionali nella teoria economica

Solo da qualche anno, alcuni economisti hanno incominciato a definire i beni relazionali. Questi sono prodotti intangibili di natura comunicativa e affettiva generati attraverso le interazioni tra gli individui. Si possono, dunque, possedere solo attraverso intese reciproche.

Luigino Bruni ha individuato alcune caratteristiche-base di un bene relazionale (Bruni, 2012):

  • identità – non è mai anonimo e indipendente dal volto dell’altro;
  • reciprocità – non può essere né prodotto né consumato né investito da un solo individuo, ma solo se condiviso nella reciprocità;
  • simultaneità – viene co-prodotto e co-consumato simultaneamente dai soggetti coinvolti;
  • gratuità – la relazione che emerge è vissuta in quanto bene in sé, non usata per altro; non è un incontro di interessi ma un incontro di gratuità;
  • bene – un modo sintetico per dire cosa sia un bene relazionale è insistere sul sostantivo; esso è un bene e non è una merce; ha un valore (perché soddisfa un bisogno) ma non ha un prezzo di mercato;
  • bene di legame – le persone che lo pro-sumano (producono e consumano assieme) entrano in una relazione che le rende dipendenti le une dalle altre, oggettivamente.

Si tratta di beni fondamentali nella nuova era dei beni comuni, che sono beni utilizzati  da tanti contemporaneamente (ad es.: la terra) o da tutti (ad es.: lo strato di ozono).

Nelle società preindustriali i beni relazionali e gli altri beni comuni erano spontaneamente percepiti come beni interagenti tra di loro, sulla base di usi e consuetudini che le comunità potevano imporre autoritariamente agli individui in mancanza di libertà individuali.

Se si vanno a leggere gli statuti degli enti che gestivano le terre collettive, si può osservare quanto questi antichi ordinamenti avessero a cuore la difesa e la cura del territorio: dalla manutenzione delle strade di campagna alla bruciatura delle stoppie, dall’incanalamento delle acque piovane e dilavanti alla predisposizione delle golene dei fiumi e dei torrenti per poterle coltivare, a volte a rotazione, ad ortaggi.

Oggi, la tutela dei beni comuni va conciliata con le libertà individuali attraverso modalità che non possono essere solo autoritative. E anche qualora si volesse ricorrere a norme legali, la dimensione globale entro cui necessariamente salvaguardare taluni beni comuni sarebbe un grave ostacolo in mancanza di istituzioni globali: è questa la novità rispetto al passato! E dunque diventa una grande opportunità, ai fini della tutela dei beni comuni, che i beni relazionali emergano spontaneamente nello scambio di mercato e lo inciviliscano ulteriormente.

Riprodurre i beni relazionali è, dunque, la condizione per salvaguardare tutti i beni comuni.  E questa connessione è frutto di un continuo processo di incivilimento.

Agricolture civili: ossimoro o complementarità?

Quando mi capita di adoperare l’espressione civiltà contadina noto nella maggior parte dei miei interlocutori una reazione di sorpresa, se non proprio di commiserazione. La cultura contadina non è stata mai identificata dalle élite intellettuali del nostro Paese come una cultura portatrice di valori e pratiche capaci di contribuire a realizzare livelli sempre più ampi di civiltà.

Del resto, nell’uso corrente il termine “civile” significa “cittadino” e si contrappone a “rurale” che significa “campagnolo”. Ma si usa anche come sinonimo di “educato” in contrapposizione a “villano” che significa “contadino”, “uomo di campagna”. Allo stesso modo del termine “cortese” che indica chi vive nelle corti in antitesi con “rustico” che connota invece gli abitanti della campagna. Insomma, nel senso comune “urbanità” e “cortesia” indicano “educazione”, “conoscenza”, mentre “inurbanità” sta per “inciviltà”, “ignoranza”.

Se si considera, invece, la storia delle forme con cui si è edificata nel tempo la società civile e si valuta con attenzione il contributo offerto dalle campagne e dal ceto contadino al processo di incivilimento della società, si comprende quanto ingiusto e irritante sia lo stigma – perfino nel vocabolario – inflitto dalle culture dominanti al ceto contadino.

Basterebbe rammentare solo le pratiche solidali da sempre esercitate in modo del tutto informale nelle campagne – come lo scambio di mano d’opera tra le famiglie agricole nei momenti di punta dei lavori aziendali, che sarà recepito nel nostro codice civile – per rendersi conto che il mondo rurale ha costituito un grande serbatoio di tradizioni civili. A seconda delle regioni questa pratica collaborativa assume una denominazione diversa: la “prestarella” o anche l’”aiutarella” o ancora la “retenna”. E avviene in momenti particolari come la mietitura, la vendemmia, la raccolta delle olive e del cotone, che diventano anche occasioni di convivialità e d’incontro.

Consuetudini siffatte sono presenti su tutto il territorio nazionale a testimonianza di un senso civico diffuso. Solo commentatori ignari della storia riguardante i beni comuni e le sue forme collettive di gestione possono dar credito alla vecchia leggenda secondo la quale la meglio strutturata società civile dell’Italia del Nord sia da attribuire alla remota esperienza dei comuni medievali. Questa tesi, riesumata recentemente dal politologo americano Robert Putnam, vorrebbe dimostrare che i divaricati risultati conseguiti dalle attuali amministrazioni regionali dipenderebbero dalle differenziate tradizioni civiche della popolazione: in particolare, laddove sono esistiti i liberi comuni si otterrebbero i migliori risultati e laddove, invece, sono proliferate istituzioni di tipo feudale si produrrebbero esperienze fallimentari (Putnam, 1993). Una tesi discutibile che ignora il grande patrimonio di tradizioni civiche che si è accumulato anche nelle fasi successive alla fragile e circoscritta esperienza comunale sia nel Nord che nel Sud, sia nelle città che nelle campagne. Una dimenticanza che è figlia degli stereotipi anticontadini e antimeridionali risalenti ad epoche lontane e sedimentatisi nel tempo.

E’ stata, inoltre, del tutto rimossa l’esperienza dei movimenti religiosi nel medioevo e poi nella modernità come fattori formidabili di innovazione sociale e civile in ambiti ben più complessi della sola dimensione di fede.

S’ignorano esperienze straordinarie di umanesimo sociale come quella messa in atto dai monaci camaldolesi a Fonte Avellana, nelle Marche, dove per tre secoli consecutivi migliaia di contadini sperimentano la gestione collettiva di un’azienda di 3.700 ettari formatasi con donazioni e lasciti di famiglie del luogo (Brunetti, 2011).

Non c’è memoria della funzione importante nell’invenzione e nella diffusione delle nuove tecniche agricole e delle nuove colture svolta non solo nell’Italia centro-settentrionale, ma ancor più nell’Italia meridionale e in Sardegna, dalle grandi abbazie, specie benedettine, e dai centri monastici basiliani, che avevano potuto più facilmente conservare la tradizione e i testi agronomici dell’antichità classica e beneficiare di più larghi contatti con il mondo bizantino ed orientale in genere.

Eppure le tracce della presenza dei monaci greci sono ancora oggi visibili se osserviamo i santuari o cenobi, collocati in un raggruppamento di laure o grotte, i suggestivi riti religiosi che continuano ad essere celebrati nella contemporaneità, la tradizione gastronomica e fitoterapica che si conserva in molte realtà locali. Non a caso l’immaginario collettivo associa la tradizione monastica non solo a vicende di penitenza e di umiliazioni corporee, ma anche a storie di prodotti sani e gustosi, di cibi affettuosamente preparati, di saperi secolari che profumano di zuppe fumanti, di erbe medicinali, di salutari elisir, di formaggi squisiti.

Si dimentica il ruolo propulsivo svolto dai monti di pietà, dalle confraternite, dalle chiese ricettizie e dalle misericordie: enti che gestivano enormi patrimoni fondiari regolati da statuti così minuziosamente rispettosi delle prerogative dei soci e dei principi mutualistici da farceli apparire quasi come fattorie sociali ante litteram.

Le terre collettive

Altre istituzioni promosse dalla società civile ma prive di un’ispirazione religiosa, sono gli enti associativi per la gestione dei beni demaniali di proprietà diretta delle popolazioni locali.

Si tratta di una forma particolare di autorganizzazione delle popolazioni locali volta a garantire percorsi inclusivi dignitosi anche agli ultimi nella scala sociale.

Costituiva, infatti, senso comune già in epoca medievale l’idea che ogni individuo dovesse avere accesso ad una quantità di risorse sufficiente a metterlo in grado di assolvere i suoi obblighi verso la comunità nella lotta per la sopravvivenza. E pertanto le popolazioni avevano acquisito collettivamente sul loro territorio i domini civici, che esercitavano lavorando questi terreni per renderli coltivabili e fruttiferi.

Sono antichi diritti e forme tradizionali di godimento collettivo che vengono variamente denominate: “associazioni degli antichi originari”, “cantoni”, “vicinìe”, “vicinanze”, “consorterie”, “consorzi”, “consortele”, “regole”, “interessenze”, “partecipanze”, “comunaglie”, “comunanze”, “università agrarie”.

Nei territori dell’ex Regno di Napoli, nella Sicilia e nella Sardegna le terre di uso collettivo sono di proprietà comune della generalità dei cittadini del comune o delle frazioni che separatamente le amministrano e vengono denominati “demani comunali”.

Gli enti che gestivano le terre collettive originariamente svolgevano non solo compiti di organizzazione degli spazi agricoli comuni per il soddisfacimento di bisogni primari, ma anche funzioni pubbliche, come pagare il medico e la levatrice oppure curare la manutenzione dei fiumi, delle strade e delle fontane.

Non costituivano mai solo comunità di proprietà, ma sempre comunità di vita.

Oggi la funzione di queste comunità potrebbe essere rivitalizzata, adeguando le forme di utilizzo alla nuova realtà socio-economica, ma guardando sempre al legame tra produzione di beni relazionali (solidarietà e mutuo aiuto) e tutela e valorizzazione dei beni comuni (terra, acqua, ecc.) e dunque all’interesse esclusivo della collettività (Bourbouze e Rubino, 1993).

Le comunità intenzionali

Nel Mediterraneo si sperimentano le prime “comunità intenzionali”, cioè quei particolari gruppi di persone che scelgono di lavorare insieme con l’obiettivo di un ideale o una visione comune.

La prima comunità intenzionale, documentata, è Homakoeion, fondata da Pitagora nel Sud dell’Italia intorno al 525 a.C. La comunità, vegetariana, ha diverse centinaia di residenti, maschi e femmine, i cui beni vengono messi in comune. I suoi membri lavorano insieme e dividono i momenti dei pasti.

Sullo stesso filone troviamo, a partire dal secondo secolo a.C., le comunità essene. Lo storico Giuseppe Flavio considera gli esseni una sorta di “pitagorici ebraici”. Essi vivono poco distanti dal Mar Morto e a queste comunità si ispireranno i primi cristiani, organizzati nella Comunità Gerosolimitana, e successivamente i movimenti monastici.

Nella seconda metà del Settecento si sperimentano anche in Italia alcuni modelli di vita “comunitari” che si richiamano alle teorie utopistiche di Charles Fourier.

Il caso più noto è la colonia di S. Leucio, fondata nel 1786 da Ferdinando IV di Borbone: un esperimento educativo, economico e sociale che produrrà i suoi effetti per oltre 150 anni (Bagnato, 1998). L’organizzazione della fabbrica per la lavorazione della seta sotto forma di colonia comunistica, le leggi che il sovrano detta nel 1789 per regolare la vita del falansterio, i meravigliosi tessuti che vengono prodotti, la fama europea che la realizzazione borbonica acquista in poco tempo, fanno di S. Leucio un luogo ideale di lavoro e di vita nell’immaginario collettivo.

Nel 1790, un analogo esperimento viene tentato da un nobile veneto, Alvise Mocenigo, che ribattezza la sua terra dal proprio nome, Alvisopoli. Egli progetta un centro abitato dotato di servizi per rendere la comunità autosufficiente. Pertanto, alla tradizionale attività agricola tenta di affiancare il settore tessile. La campagna è così riorganizzata e bonificata, alternando aree asciutte a terreni umidi, regolamentati da un efficiente sistema di canali tuttora funzionante. Per quanto riguarda l’urbanistica, si costruiscono edifici ad uso residenziale (si possono ancora notare le basse casette dei contadini) e industriale (barchesse, risiera, fornace, mulino). A ciò si aggiungono le attività culturali, con la fondazione di una celebre tipografia.

 Un altro esperimento di colonia comunistica viene avviato alla fine del Settecento anche a Campomaggiore, un piccolo centro agricolo della Basilicata, dove l’architetto Giovanni Patturelli, allievo del Vanvitelli, aveva progettato su incarico del conte D’Errico un paese per sole 1600 persone con case disposte a scacchiera. Gli abitanti hanno tutti a disposizione un pezzo di terra con seminativi, un oliveto e una vigna e gestiscono in comune magazzini, frantoi e diversi servizi. E’ Patturelli ad aver progettato anche la colonia di S. Leucio. Ma nel 1885, una frana costringe la popolazione di Campomaggiore ad abbandonare il paese (Boenzi e Giura Longo, 1994). Conflitti tra famiglie borghesi e interessi speculativi sull’area dove si andrà a edificare il nuovo centro, rallentano la ricostruzione oltre i tempi ragionevoli, provocando l’inevitabile diaspora e l’esaurimento del sogno utopico dei fondatori.

Nella seconda metà dell’Ottocento, le prime e più significative esperienze di cooperazione in Italia – a differenza di quanto avviene nei paesi nord-europei – nascono in agricoltura: si tratta delle cooperative di braccianti a Mantova e a Ravenna.

Nel filone utopistico può anche essere inserita la celebre esperienza dei kibbutzimisraeliani, il primo dei quali è creato a Degania nel 1909. Si tratta di una dimensione comunistica gestita coi criteri della democrazia diretta. La sua istituzione viene considerata come una reazione di rifiuto allo stile di vita  e alla cultura dello Shtet, cioè del ghetto ebraico presente in numerose città europee e una ribellione contro le famiglie autoritarie. Lasciare la condizione di agiatezza per il deserto palestinese è la conseguenza di una scelta dettata non da una fede religiosa, ma da un’etica del lavoro atea e socialista non imposta, ma liberamente scelta. I primi insediamenti ebraici in Palestina, all’inizio del Novecento, sono realizzati dai settler, coloni, mediante l’acquisto di terreni dagli arabi, su cui vengono costruite le case di abitazione e le aziende di produzione, in primo luogo agricole. Il modello di vita di un kibbutz è puramente socialista: i beni sono comuni, la comunità provvede ai bisogni dei suoi membri, i quali lavorano per il kibbutz ognuno secondo le proprie capacità ed inclinazioni. Ancora oggi il motto è: “Da ognuno secondo le proprie possibilità, ad ognuno secondo i propri bisogni”.

Un’altra esperienza comunitaria con un chiaro intento educativo è quella di Nomadelfia, una comunità fondata da don Zeno Saltini nel 1947 nell’ex campo di concentramento di Fossoli, in Emilia. Successivamente il gruppo si sposta nella Maremma toscana, a dieci chilometri da Grosseto. Nel 1954 sorge in questo luogo una città con una propria Costituzione fondata sulla fraternità cristiana vissuta in forma comunitaria e solidale. Le famiglie non vivono isolate ma in gruppi familiari di circa trenta persone. Per evitare che il gruppo familiare diventi a sua volta un centro di egoismo, per essere disponibili a vivere con tutti e a distaccarsi dalle cose, ogni tre anni la presidenza scioglie i gruppi e li ricompone con altre famiglie. Ciascun nucleo familiare, naturalmente, rimane sempre unito e porta con sé soltanto gli effetti personali. In ciascun gruppo ci sono assistenti e allievi della scuola agraria, falegnami, muratori, meccanici, sarti, calzolai, magliaie in modo da essere autosufficienti per la lavorazione della terra, la cura del bestiame, la costruzione e la manutenzione delle case e dei mobili, la confezione e la riparazione degli indumenti e di tutto quello di cui può sorgere necessità. Nel 1968 i Nomadelfi ottengono dal Ministero della Pubblica Istruzione l’autorizzazione di istruire i propri figli all’interno della comunità sotto la loro diretta responsabilità. Nasce così la “scuola familiare” che è anche vivente e di popolo: familiare perché sono i genitori a dare l’istruzione necessaria ai bambini; vivente perché ogni momento della vita è scuola; di popolo perché tutta la comunità è responsabile dell’educazione e dell’istruzione dei fanciulli.

Sull’onda del ‘68, ai filoni religioso e utopistico si aggiunge quello esistenzialista: sono le comuni, fortemente caratterizzate dalla scolarizzazione di massa e dalla critica antiautoritaria.

La ruralità contemporanea

Le pratiche di Agricoltura Sociale più diffuse in Italia si inseriscono nel più vasto fenomeno della nuova ruralità, che dagli anni Settanta ha incrociato la crisi del modello fordista dell’economia e la crisi del modello di Welfare State.

La nuova ruralità mediterranea, a differenza di quella continentale prevalentemente conservazionistica e ricreativa, si pone in continuità con una tradizione che si caratterizza per una maggiore integrazione tra città e campagne, nonché per una diffusa presenza della pluriattività e dell’economia informale.

Essa non si manifesta come “nostalgia del mondo rurale”, ma come un insieme di attività in più settori svolte da soggetti sociali di diverse estrazioni e provenienze, legate tra loro da relazioni di tipo collaborativo.

Questa nuova ruralità è visibile osservando alcuni fenomeni nuovi nelle relazioni tra città e campagne: la rurbanizzazione, i consumATTORI e le comunità di cibo.

La rurbanizzazione

E’ un fenomeno che riguarda sia lo spostamento di singoli individui e gruppi dalle città verso le aree periurbane e rurali alla ricerca di stili di vita e forme dell’abitare meno stressanti e più sostenibili, sia la crescita di attività agricole e rurali meno industrializzate e più legate a logiche di competizione di tipo cooperativo.

Le esperienze più significative di Agricoltura Sociale sono nate, sin dalla seconda metà degli anni Settanta, in tale contesto (Bagnato, 1984).

Nell’ambito della rurbanizzazione, i nuovi soggetti riproducono, in forme moderne, alcuni tratti dell’economia preindustriale.

Questi “neo-contadini” hanno come obiettivo non tanto quello di produrre cibo in sé, ma di produrlo in un certo modo, per ottenere dei beni comuni capaci di soddisfare nuovi bisogni collettivi. Si opera una sorta di capovolgimento dei mezzi in fini, per ristabilire un ordine di priorità che si era smarrito con la modernizzazione agricola.

E’ l’uomo coi suoi bisogni e le sue aspirazioni più profonde e sono i beni comuni, relazionali e ambientali, i fini delle attività economiche, mentre il processo produttivo, il prodotto e la sua scambiabilità sono soltanto i mezzi per perseguirli.

I consumATTORI

Sono una particolare tipologia di consumatori che vogliono essere partecipi del progetto con cui si crea il prodotto agricolo e non semplicemente spettatori passivi nel teatro del marketing.

Vogliono essere co-protagonisti che interagiscono coi produttori.

Essi non si limitano a informarsi sui diversi prodotti, guardare l’etichetta e acquistare passivamente il bene in qualunque punto vendita. Vogliono, invece, partecipare attivamente al rapporto di scambio, dopo essersi aggregati, anche informalmente, in gruppi di acquisto.

Fino a qualche tempo fa, gli scopi prevalenti di tali aggregazioni riguardavano la ricerca del rapporto diretto produttore/consumatore e della genuinità dei prodotti.

Ultimamente si è aggiunta una nuova finalità specie in quei gruppi sociali sensibili ai bisogni delle persone svantaggiate. Questi consumATTORI sociali intendono sostenere direttamente i sistemi di Welfare, mediante l’acquisto di prodotti delle fattorie sociali e i percorsi partecipativi che si attivano nell’ambito dei progetti di Agricoltura Sociale e delle reti di economie civili.

Le comunità di cibo

Le comunità di cibo si creano intorno alla cultura del cibo e sono costituite dai farmer’s market, dagli hobby farmer’s, dalle reti di fattorie sociali e di orti urbani e dai presidi di prodotti tradizionali.

Esse non dovrebbero, tuttavia, chiudersi in una logica di autosufficienza ma agire sempre in una dimensione globale, costruendo reti sempre più ampie, che coinvolgano filiere alimentari civili interessate a muoversi in un’ottica cooperativa.

Una delle idee fondanti delle comunità di cibo è che piacere e salute non vanno intesi in modo conflittuale ma nel segno dell’alleanza e del reciproco vantaggio.

La diffusione dell’Agricoltura Sociale sta contribuendo ad integrare il binomio “piacere/salute” con un nuovo ingrediente: l’inclusività.

L’alternativa fra cibo slow e cibo fast è spesso intesa in termini di tempo, di ritmo: lentezza contro velocità. È un’interpretazione fuorviante perché la differenza sta piuttosto nella propensione (o, viceversa, nel disinteresse) a preparare, offrire e gustare il cibo con cura. Questo richiede tempo, ma non necessariamente molto. Richiede piuttosto attenzione: alla scelta degli ingredienti, ai modi di cottura, alla successione dei sapori, alle forme di presentazione, alla scelta della compagnia con cui condividere il cibo.

Ciò che va superata è la cultura della distrazione verso il cibo. E il modo per recuperare una cultura dell’attenzione al cibo, a questo atto fondamentale della nostra vita, è quello di accompagnarlo con l’attenzione verso l’altro: la convivialità, che è poi un aspetto della cultura del vicinato e della prossimità.

Le attività di Agricoltura Sociale

 Le pratiche di Agricoltura Sociale riguardano una serie di attività che si possono racchiudere in tre ambiti principali.

Il primo attiene alle attività in cui persone con disagi o svantaggi danno un significato alla propria vita e un senso alle proprie capacità mediante l’attività agricola. Lo scopo di tali attività è quello di promuovere l’inclusione sociale e lavorativa, intesa sia come inserimento lavorativo vero e proprio (remunerato dall’impresa), sia come percorso di auto-realizzazione delle capacità in un contesto imprenditoriale e lavorativo non assistenziale, mediante forme di sostegno inclusivo. I soggetti svantaggiati che vengono inclusi sono di vario tipo: invalidi fisici, psichici e sensoriali, ex degenti di istituti psichiatrici, soggetti in trattamento psichiatrico, tossicodipendenti, alcolisti, minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare, condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione, ex detenuti, donne che hanno lasciato il lavoro per la difficoltà di conciliare i tempi di vita lavorativa e tempi di vita familiare, persone sole con figli a carico, donne che hanno subito violenze e maltrattamenti, disoccupati ultracinquantenni o di lungo periodo.

Il secondo ambito di attività riguarda l’organizzazione – in collaborazione con strutture pubbliche – di servizi terapeutici e riabilitativi, comprese l’onoterapia, l’ippoterapia e l’ortoterapia.

Il terzo ambito di attività concerne la fornitura di altri servizi sociali, quali quelli rivolti alla fascia di età prescolare (agrinido, agriasilo), le attività educative a minori in difficoltà, le attività con gli anziani e quelle di accoglienza e integrazione di migranti.

Le forme di Agricoltura Sociale

Le pratiche di Agricoltura Sociale presentano una pluralità di forme che non possono essere ricondotte ad un unico modello.

Questa caratteristica dipende dal fatto che l’Agricoltura Sociale interagisce con più settori e più competenze e utilizza diverse combinazioni di risorse (Pascale, 2009).

La molteplicità delle forme e dei modelli è una ricchezza che va salvaguardata, evitando ogni tentativo riduzionista e semplificatorio e lasciando, invece, quanto più possibile alla creatività dei soggetti protagonisti la capacità di sperimentare nuove e sempre più ricche modalità.

La virtù civile di una pratica di Agricoltura Sociale non dipende dalla forma giuridica del soggetto che la realizza, ma dalle motivazioni degli operatori, dalla qualità del progetto e dalle ricadute di quest’ultimo sul territorio.

Le principali forme di Agricoltura Sociale si possono distinguere in forme imprenditoriali e in forme di cittadinanza attiva.

Le forme imprenditoriali

L’imprenditore che realizza una pratica di Agricoltura Sociale è sempre un imprenditore civile che non agisce mai per mero profitto.

Egli non intende la sua impresa semplicemente come una macchina per far soldi, ma come qualcosa che esprime la sua identità e la sua storia.

Gli scopi che lo muovono sono ricchi e complessi: la volontà di lottare per ottenere un successo in quanto tale piuttosto che i frutti del successo; il piacere di osare e creare qualcosa che apporta un cambiamento nella società e nell’economia; la responsabilità di dare un apporto diretto alla promozione della giustizia; la gioia di donare qualcosa ad altri oltre il dovuto in una relazione di reciprocità incondizionata.

Le imprese che realizzano pratiche di Agricoltura Sociale sono pertanto imprese civili e possono assumere le forme più varie: quella dell’impresa agricola for profit e a responsabilità sociale; quella della cooperativa agricola; quella della cooperativa sociale agricola o ancora quella dell’impresa sociale che svolge anche l’attività agricola.

Le forme di cittadinanza attiva

Sono pratiche che riguardano attività agricole e zootecniche effettuate in modo esclusivamente funzionali agli obiettivi del progetto di Agricoltura Sociale, benché siano svolte secondo le tecniche agronomiche correnti e nel rispetto delle normative di settore, ma orientate all’autoconsumo e al rifornimento di reti consumeristiche di familiari e conoscenti.

Queste forme racchiudono gli orti urbani; gli “orti sui tetti o pensili”; i centri ippici con finalità riabilitative e le asinerie; le attività di piccoli produttori non professionali (hobby farmer’s); le attività su terreni agricoli in luoghi di cura e riabilitazione, di detenzione (carceri), di accoglienza (comunità terapeutiche), che danno vita ad originali percorsi di benessere fisico e psichico.

La sostenibilità economica di tali forme è ricercata nelle reti di economie civili.

Oggi la moneta e la finanza hanno perduto l’originaria funzione di servizio negli scambi economici e sono parte esse stesse del mercato. Vi sono tentativi di ritorno allo spirito originario: le monete locali complementari e la finanza etica (finanza civile).

Le nuove tecnologie informatiche permettono forme di baratto 2.0 che vanno oltre l’esperienza delle “banche del tempo”. Si potranno realizzare nel prossimo futuro vere e proprie monete virtuali. Si potranno offrire i propri prodotti e servizi on line scambiandoli con altri prodotti e servizi.

Le forme di cittadinanza attiva non vanno, dunque, erroneamente considerate forme assistenzialistiche o parassitarie, ma combinazioni diversificate e originali di apporti lavorativi e professionali, motivazioni delle persone coinvolte e risorse inusuali del territorio.

Le reti come nuovi mercati civili locali e globali

Si tratta di creare mercati civili, mediante l’utilizzo di varie forme di commercializzazione, quali la fornitura di gruppi di acquisto solidale,  la vendita diretta in azienda, la vendita on-line, la  partecipazione a mercati agricoli di vendita,  la fornitura di mense collettive.

La peculiarità di tali forme commerciali è che lo scambio economico di beni e servizi avviene sulla base di relazioni interpersonali, fondate sulla reciprocità e sulla cooperazione.

Si tratta di organizzare in modo distinto, ma complementare, sia la domanda che l’offerta di beni e servizi prodotti da fattorie sociali e reti di economie civili, volti a soddisfare bisogni sociali e idealità altruistiche che permeano in modo diffuso la società civile.

Rivitalizzare mercati locali è importante, ma occorre farlo sempre con dinamicità e in modo innovativo, soprattutto ora che, nei paesi emergenti, entrano in scena milioni di nuovi consumatori che stanno modificando la propria dieta alimentare.

La lezione che ci viene dalla storia è di pensare il sistema alimentare non come una realtà semplice, dettata dalla “natura” dei luoghi, bensì come una costruzione complessa, legata ad una cultura, ad uno stile di vita che i popoli del Mediterraneo hanno imparato a condividere, a modificare, a contaminare, a creare giorno dopo giorno (Montanari, 2009).

E’ forse questa modalità che noi dovremmo offrire alle altre parti del mondo come un percorso utile di confronto e integrazione delle diverse culture alimentari esistenti attualmente.

La competitività da perseguire, sia a livello locale che globale, dovrebbe essere di tipo cooperativo.

Si tratta di tornare all’economia di mercato che prende il meglio della civiltà materiale del Mediterraneo, a partire dalla capacità di produrre beni relazionali nell’economia-mondo.

Ecco una sfida per le comunità di cibo del futuro!

Riferimenti bibliografici

Bagnato Agostino, Un’agricoltura annunciata. Terre incolte e cooperative giovanili, Tipar, Roma 1984

Bagnato Agostino, San Leucio. Una colonia borbonica tra utopia e assolutismo, AGRA Editrice, Roma 1998

Boenzi Federico e Giura Longo Raffaele, La Basilicata: i tempi, gli uomini, l’ambiente, Edipuglia, Bari 1994

Bourbouze Alain e Rubino Roberto (a cura di), Terre collettive nel Mediterraneo. Storia, legislazione, usi e modalità di utilizzazione da parte degli animali, Inea, Roma, 1993

Braudel Fernand, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Federico II, Einaudi, Torino 1986

Braudel Fernand, Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, Bompiani, Milano 1992

Brunetti Manlio, La gestione del territorio rurale nell’esperienza di Fonte Avellana, Inea, Roma 2011

Bruni Luigino, Le nuove virtù del mercato, Città Nuova, Roma 2012

Esiodo, Le Opere e i Giorni, Rizzoli, Milano 1983

Ferrarotti Franco, Il senso del luogo, Armando Editore, Roma 2009

Insor, La riforma fondiaria: trent’anni dopo, Franco Angeli, Milano 1979

Montanari Massimo, Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, Editori Laterza, Bari 2009

Pascale Alfonso, Linee guida per progettare iniziative di agricoltura sociale, Inea, Roma 2009

Putnam Robert, La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993

Sen Amartya, L’idea di giustizia, Mondadori, Milano 2010

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