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I contadini - secondo Rocco Scotellaro - hanno sempre avuto una grande consapevolezza di sé. Sanno che il primo lavoro umano fu di sollevare una zolla e insediarsi in un luogo da vivere, tutto venne poi di lì. Stiamo bene noi – dicono agli altri che contadini non sono – starete bene voi. Noi daremo il pane, voi farete le scarpe nuove, il mobilio ai figli che si sposano, un libro da leggere. È l’invito ad un patto a cui si aderisce per stabilire una relazione in nome di una fraternità primordiale
Finisce luglio e inizia agosto e, quasi inavvertitamente, anche noi guardiamo l’aria come sono soliti fare i contadini. Essi rallentano il passo perché devono all’orizzonte scrutare il cielo nuvoloso. Distendono il volto fino a renderlo inespressivo, terribile come annota Rocco Scotellaro che la cultura contadina conosceva in profondità. “Mi hanno nella sera predetto il tempo della mattina – racconta il poeta – per loro la terra è madre, il cielo è nemico, il cielo è un bambino capriccioso che sa fingere e mordere. Perciò i contadini guardano l’aria sempre sulle porte”.
Ma allora bisogna essere pessimisti, caro Rocco, se il cielo è nemico non ci sta preparando nulla di buono il futuro. Questo mondo contadino che tu ami tanto, in fondo è un mondo chiuso, conservatore. E noi che siamo figli di quel mondo ci portiamo dentro questo stigma.
Rocco quel mondo l’ha indagato attentamente e ci spiega che non è così. Quando i contadini lo incontravano, gli chiedevano: “Come va per noi? Che dicono i giornali? Ce la faremo?” E la risposta se la davano da soli: “Attenti e forti ce la faremo. Abbiamo aperto gli occhi”. E sorridevano profondamente. E Rocco allora ci avverte: “Questa combattività intelligente contrasta, dunque, con tutta questa vecchia storia del conservatorismo contadino, che si assume da qualche parte operi ancora nelle campagne”.
“Secondo questa storia – riflette il poeta – i contadini sarebbero naturalmente portati per l’ambiente, il clima mitico del loro lavoro, a una rigidità di concezioni, a quell’astuzia del granaio pieno, all’investimento dei capitali nel buco del mattone. No, questa è davvero una vecchia storia, dei nemici loro che sono tanti a cominciare dal cielo”. E continua: “Li ho visti amareggiati per questo: zotici, zulù, analfabeti, soldati di prima linea che altro avevan da essere? Uguale rampogna non fu mai finora spiccata contro di essi. Evidentemente si trema per il loro occhio aperto, si trema che questa gente finalmente si svegli, che getti un grido di rivolta contro l’incomprensione. Essi non vogliono niente, i contadini, gridano non per avere le scarpe lucide, sempre la zappa hanno avuto tra le mani e avranno. Solo chiedono meno tasse, un lavoro pulito, una casa, una strada, una fontana”.
Ma se è come tu dici, Rocco, perché i contadini sono sempre così rassegnati, succubi del potere?
“Non è vero! – grida il giovane sindaco di Tricarico – voi non li conoscete”.
E allora spiegalo tu come sono fatti.
Rocco non si fa pregare e attacca lentamente: “I contadini hanno sempre avuto una grande consapevolezza di sé. Sanno che il primo lavoro umano fu di sollevare una zolla e insediarsi in un luogo da vivere, tutto venne poi di lì. Stiamo bene noi – dicono agli altri che contadini non sono – starete bene voi. Noi daremo il pane, voi farete le scarpe nuove, il mobilio ai figli che si sposano, un libro da leggere. È l’invito ad un patto a cui si aderisce per stabilire una relazione in nome di una fraternità primordiale”.
E’ vero quello che dici, caro Rocco. Ma i contadini, proprio perché sono convinti che tutto nasce da loro, non hanno mai pensato a un potere che già considerano nelle loro mani. Essi perdonano sempre come i padri perdonano sacrificando se stessi per l’umanità. Si sono sempre illusi che tutti hanno comprensione dei loro bisogni, della loro fontana, della strada. Votano per tutti i candidati che promettono di più. Una baraonda che non capiscono o capiscono e perdonano. Al mondo ci siano pure le vespe insieme alle api – sono soliti dire – tanto non possono essere in malafede, perché fare male ai contadini significa fare il male di tutta l’umanità. Ma allora i contadini se le sono cercate le disgrazie che ora incombono. Hanno detto sì a tutti e ora vedi in che condizioni ci troviamo.
Rocco scuote la testa e ci invita ad ascoltarlo. Ci spiega di aver visto i contadini svolgere nell’immediato secondo dopoguerra una duplice funzione che così descrive: “La prima è quella della lotta; agitano i loro problemi, scendono sulle piazze a gridare i loro bisogni e sono allora capaci delle alleanze più vaste, dialogano con tutti quelli che comprendono le loro ragioni. La seconda è poi quella che li vede cadere nell’attesa paziente perché la terra è una padrona severa da ubbidire con dura disciplina; si danno al lavoro, sono assenti, fino a quando certe scadenze li richiamano sulla piazza o nelle urne a negare o ad accettare”. E ricorda quella volta che un vecchio contadino, in una sezione democristiana, gridò a un deputato locale: Ridatemi il voto! Non avete fatto né la riforma e nemmeno la fontana! “Una protesta ingenua – commenta Rocco spalancando le braccia – ma altamente politica”.
È dunque dai tempi di Rocco che il patto contadino che operava da secoli si è modificato. È da allora che esso deve avere un contenuto di politica. Una volta era la parola delle vespe che pur dovevano vivere e che li invitava alla rinuncia come Cincinnato. Ma quando alzarono la testa – scendendo nelle piazze e mettendosi alla testa delle lotte – essi strapparono qualcosa dal loro vecchio statuto, rinunciarono ad essere paterni perché sentivano gravare il cielo nemico e i suoi elementi: i lampi e i tuoni della miseria e, in alto, governi che non governavano.
Oggi di nuovo si deve ridefinire un patto nella società e tra la società civile e le istituzioni. E noi che veniamo da una società di contadini dobbiamo avere memoria di quel patto antico e di quel contenuto di politica che i nostri progenitori, vollero inserire nel vecchio statuto, agli albori della democrazia repubblicana.
Per i contadini quel contenuto consiste nella fiducia reciproca, nella fedeltà alla parola data, nella fraternità delle relazioni interpersonali che comporta sempre un parlare sincero, un ascolto continuo, una responsabilità permanente dell’uno verso l’altro, insomma il fondamento di ogni rapporto di civile convivenza. Quel contenuto era il collante del loro mondo e vollero che diventasse il valore di legame dell’intera società.
Se il futuro ci porterà la riscoperta di quel valore antico ma così moderno, potremo seguitare a guardare l’aria con meno angosce e con ragionevoli speranze.
Buona stagione!
(Il dialogo è liberamente tratto da una prosa di Rocco Scotellaro pubblicata sulla rivista “Mondo Operaio” del 2 aprile 1949)