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Nel Parlamento europeo devono andare persone consapevoli di due sfide: la cittadinanza e la vera costruzione europea. E nella società civile deve crescere una classe dirigente capace di guidare un percorso culturale per fare in modo che l’Europa entri nelle nostre vite e ciascuno di noi si senta un cittadino europeo
Il processo di costruzione dell’Europa Unita si è bloccato e rischia di implodere e fallire. Si può riprendere il cammino ad una sola condizione: se ciascun europeo considererà il proprio Paese e l’Europa un tutt’uno; se sarà capace di suggerire soluzioni pensandole come soluzioni per entrambi; se sarà in grado di analizzare problemi e handicap, individuandoli come carenze e ritardi che pesano su entrambi. Se non ci sarà questa crescita culturale in ciascuno di noi e se non avremo una classe dirigente effettivamente europea il sogno di Spinelli si spegnerà.
Per noi italiani significa affrontare i problemi del nostro Paese – che si presenta sempre più fiaccato, disperso, attonito – nel contesto strategico della costruzione europea. Costruire la patria europea comporta l’impegno a ripensare il senso del nostro essere Paese.
Ma è un impegno che riguarda le nostre singole vite a cui possiamo dare un senso più pieno solo in una comunità più ampia. Più si rimpicciolisce la nostra patria e più fievole potrà essere il nostro ruolo nel mondo, nella cui scena si sono affacciati Paesi che hanno una vitalità maggiore della nostra.
La grande crisi ha disvelato una situazione insostenibile in Europa: nei nostri singoli Paesi e nei rapporti tra i Paesi, membri della stessa Comunità. Le soluzioni non possono che essere contestuali in Italia e in Europa.
Questa visione non è scontata perché deve maturare nella coscienza di ciascuno di noi. Siamo purtroppo bombardati da una quotidiana azione di comunicazione superficiale o negativa che presenta i processi decisionali europei quasi sempre come momenti di spoliazione di risorse e poteri nazionali, ignorando che la vera espropriazione della cittadinanza avviene continuamente da parte di forze e organizzazioni sovranazionali, potenti, incontrollate e incontrollabili.
A questa comunicazione distorta purtroppo non reagisce la società civile perché le sue organizzazioni non sono ancora in grado di “costituirsi” interlocutrici sovranazionali. Gli stessi partiti politici ancora operano nello spazio europeo nella forma e nell’approccio tipico delle delegazioni nazionali.
Anche il Parlamento europeo spesso funziona ancora come confronto tra delegazioni nazionali e partiti nazionali; il suo stesso metodo di elezione resta ancora prevalentemente impostato come “campagne elettorali” nazionali. Non ci devono sfuggire segni di mutamento della situazione come la personalizzazione transnazionale della campagna elettorale, ma la strada è lunga e bisogna intensificare lo sforzo teso a denazionalizzare elezioni da sempre a rimorchio di appartenenze domestiche.
Non si deve dimenticare che quando cadde il Muro di Berlino, il Muro della vergogna, per iniziativa di migliaia di giovani, le due principali forze politiche italiane (la Democrazia cristiana e il Partito comunista) restarono sconcertate perché avevano un particolare approccio all’Europa e alle relazioni internazionali. Faceva comodo un po’ a tutti che il “muro” stesse lì per consentire a ciascuna parte di continuare a recitare come da copione e non a mettersi in discussione.
È vero che il PDS partecipò nel 1992 alla fondazione del Partito del Socialismo Europeo ma nessuno si è mai accorto della sua partecipazione. Il PD ha aderito al PSE il giorno prima dell’annuncio della candidatura di Schulz alla presidenza della Commissione europea.
Ma vediamo rapidamente come andò dopo la caduta del Muro.
La riunificazione della Germania produsse uno shock tra i diversi capi di stato e di governo dei Paesi membri della Comunità europea. E si pensò immediatamente di neutralizzare il marco tedesco, divenuto più forte, con la moneta unica europea, senza riflettere sulle conseguenze di una scelta adottata senza il contorno e il contesto di altre istituzioni necessarie a sostenere una moneta per tante e diverse economie.
Si è dovuti arrivare alla grande crisi economica e finanziaria per comprendere il limite di quella scelta. Nel dopo-euro ciascun Paese membro dell’Unione ha dovuto affrontare due grandi sfide: a) individuare le carenze e le fragilità del suo specifico sistema-Paese (una grande operazione di verità civica per misurare il grado di maturità di una comunità); b) attuare le riforme economiche, sociali e degli assetti istituzionali necessarie.
Il processo si è rivelato complicato in mancanza di molti strumenti e fattori di vera integrazione. E mentre è proseguito il tira e molla sulla correzione di queste carenze, alcuni Paesi hanno superato la prova e altri sono stati costretti a interventi correttivi che hanno creato fatti e fattori di ulteriore disintegrazione, sia al loro interno che nei confronti degli altri.
È in questo scenario che la costruzione europea rischia di avvitarsi ma può riprendere con uno scatto di reni.
Cosa si dovrebbe fare in concreto?
Per realizzare questa agenda occorre, tuttavia, una visione, un orizzonte di pensiero e di sentimento capace di dare risposte a queste tre domande:
Se non si risponde a queste tre domande e non si opera coerentemente con le risposte che si daranno non ci sarà mai una cittadinanza europea e una vera costruzione europea.
Nel Parlamento europeo devono andare persone consapevoli che dinanzi a noi ci sono queste sfide. E nella società civile deve crescere una classe dirigente capace di guidare un percorso culturale, prima ancora che politico, per fare in modo che l’Europa entri nelle nostre vite e ciascuno di noi si senta un cittadino europeo.