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Intervento alla tavola rotonda sul tema "Cereali tra commercio ed economia, tra oriente ed occidente" che si è svolto a Roma, Palazzo Bracaccio, il 7 giugno 2014, nell'ambito dell'inaugurazione di Roma Cerealia
Il primo tipo di pasta che i nostri progenitori hanno sperimentato è stato lo gnocco. Mescolando la farina con l’acqua e sottoponendo l’elaborato ad una intensa pressione, essi appresero che la massa ottenuta poteva dar luogo tanto a quello che noi chiamiamo pasta quanto a quello che noi chiamiamo pane. La differenza consisteva solo nell’eventuale aggiunta di un po’ di lievito, o di sale. La madre di tutte le paste è dunque rappresentata da un enorme gnocco.
A quel punto i nostri antenati s’accorsero che si potevano ottenere ulteriori manufatti dall’impasto di acqua e farina. Sottraendolo a naturali fenomeni di fermentazione, esso diventava pane azzimo. Se si lasciava, invece, fermentare liberamente, si avviava ad essere il pane che più comunemente conosciamo. Ma lasciandolo tal quale poteva essere destinato – dopo nuova lavorazione – a lasagne/tagliatelle fresche o a spaghetti/maccheroni da essiccare. O ai veri e propri gnocchi dei nostri trattati gastronomici.
Non a caso nella lingua tedesca il termine che indica la tagliatella – “Nudel’” – deriva da un affinamento di quello con cui viene chiamato il massiccio gnocco iniziale: “Knödel”.
Inizialmente, le prime comunità rurali consumavano il cereale alla stregua di ogni altro frutto. I chicchi venivano masticati come bacche. Poi incominciarono a praticare la tostatura o a preparare la polenta. La spiga immatura abbrustolita serviva a nutrirsi al pari delle pappe, o polentine, che segnarono l’avvio della civiltà mediterranea. E per evitare che la polenta imputridisse, coi fermenti già contenutivi, si creò il pane azzimo.
Anche per convincerci che il pane derivi dalla pappa ci soccorre la lingua tedesca. C’è, infatti, molta somiglianza tra “brot” (pane) e ”brei” (pappa). E va notato pure che nell’antica Babilonia la birra si chiamava “un pane che si beve”, mentre il pane era chiamato “una birra che si mangia”.
Ma la pasta non è una filiazione del pane. Essa è l’altra forma del grande gnocco iniziale. Sia il mondo latino che quello ellenistico chiamavano “tracta” la pasta appena tirata e “làganum” le lagane, entrambe prodotte ritagliando la sfoglia lavorata con il laganaturo e poi cotte nel “lasanum” (pentola), da cui è derivato il nome delle lasagne. Ma stiamo ancora parlando della pasta fresca.
La pasta secca si chiamava invece “itriya”. Emilio Sereni ha trovato questa voce in un testo del lessicografo siriaco Bar Ali, vissuto nel IX secolo. Lo stesso termine compare in aramaico nel Talmud babilonese e in quello di Gerusalemme. Insomma, la pasta secca era conosciuta in Palestina tra il III e il V secolo della nostra era. Ma già nei classici greci il termine “itrion” evocava un crostolo dolce fatto con sesamo e miele, una specie di quelle frittelle carnevalesche che in varie regioni italiane prendono il nome di frappe o chiacchiere.
C’è stata però una fase della nostra storia in cui la pasta è diventata una componente importante della spesa alimentare. E questo è avvenuto in tempi relativamente recenti. Lo si deve al genio dei Napoletani alle prese con un progressivo aggravamento delle proprie condizioni di miseria tra il Cinquecento e il Settecento, per via della dominazione spagnola. Emilio Sereni ha scritto bellissime pagine sull’evoluzione degli abitanti di Napoli da “Mangiafoglia” a “Mangiamaccheroni”. Un processo sociale spontaneo che risolve un complesso problema logistico, annonario ed economico determinato dall’immiserirsi delle condizioni del popolo.
La “foglia” è il cavolo broccolo che si mangia bollito e condito in insalata col limone oppure strascinato al tegame con olio e aglio fritto, o ancora associato con la carne nelle minestre e, soprattutto, nel favoloso “pignato mmaretato”. Orbene, la “foglia” associata con la carne è stata per un lungo periodo l’elemento fondamentale del nutrimento dei Napoletani. E ad essa, progressivamente, subentrano i maccheroni.
Un consumo più esteso della pasta si è potuto realizzare perché entrano in scena, già alla metà del Seicento, due macchine che prima non esistevano: la gramola e il torchio. E così la produzione domestica e manuale delle paste cede il passo a quella meccanica. Vengono chiamate “paste d’ingegno”, cioè fabbricate a macchina, per distinguerle dalle “paste a mano”.
Fino all’invenzione del torchio, la confezione artigianale delle paste non superava quella domestica. La produzione dei maccheroni – oltre alle operazioni comuni alla lavorazione dei vermicelli – richiedeva un’operazione supplementare: quella della perforazione o dell’avvolgimento in cannelli. E quindi non poteva assumere caratteri di massa. Con la diffusione del torchio, per contro, non soltanto il tempo e il costo di produzione di tutti i tipi di pasta si riducono drasticamente, ma anche la perforazione dei maccheroni non richiede più un’operazione supplementare, viene bensì ottenuta – all’atto stesso della spremitura della pasta – col semplice ricorso a una particolare conformazione dei “pertusi” della trafila.
Così la bottega artigiana evolve in manifattura. E il consumatore partenopeo viene a disporre della produzione di massa e meccanizzata di una vera e propria industria alimentare: nettamente più avanzata, ormai, quanto ad attrezzatura tecnica, di quella stessa del pane. Questa convenienza economica relativa è alla base dell’evoluzione dei Napoletani da “Mangiafoglia” a “Mangiamaccheroni”, del corrispettivo aumento dei loro consumi di paste alimentari a scapito di quelli carnei, nonché del consolidamento della fama europea di Napoli come “capitale dei maccheroni”.
Non si tratta di una semplice e fortuita coincidenza. La “foglia” – oltre ad essere una derrata povera dal punto di vista nutrizionale – era diventata anche più costosa. La popolazione era aumentata e l’espansione urbanistica aveva sottratto spazio agli orti suburbani. Bisognava ricorrere – per il rifornimento dei mercati cittadini – a centri di produzione orticola più lontani. Con costi più elevati di trasporto. Ma la differenza, in realtà, la faceva un altro fattore: l’acqua. Per produrre la “foglia” bisognava ricorrere in modo massiccio all’acqua, che incideva in spese e prezzo, per oltre il 90 per cento. Per produrre la pasta, ne abbisognava molto meno. In queste condizioni, il ricorso crescente ai maccheroni rappresenta una soluzione geniale dal punto di vista economico e prelude a quelle moderne soluzioni, che solo il più recente sviluppo delle tecniche delle conserve alimentari ha reso possibili. Invece di trasportare, da distanze crescenti, con ingente spesa, una derrata povera, acquosa e deperibile, si trasporta una derrata ben più ricca e secca, qual è il grano; se ne confeziona un prodotto facilmente conservabile, e “in loco” si trasforma questo prodotto – assimilando in esso l’acqua, che non costa nulla – in una massa alimentare qual è quella della pasta asciutta o delle minestre di pasta: capaci di produrre, non meno di quelle di verdura (il cui largo consumo, d’altronde, continuerà ad essere caratteristico per la popolazione napoletana), la sensazione di sazietà, e dotate, per di più, di ben superiori qualità nutritive.
Perché i maccheroni potessero, tuttavia, assumere una parte di primo piano nell’alimentazione dei Napoletani, era indispensabile che la loro confezione fosse fondata non già sull’impiego dei grani teneri (normalmente usati nella panificazione) bensì su quello dei grani duri: a ben superiore contenuto di glutine e di proteine vegetali. E così comprendiamo perché, dinanzi ai maccheroni napoletani, si apre la prospettiva di divenire non solo un piatto di largo consumo, bensì addirittura il caratteristico fondamento dell’alimentazione meridionale.
La natura del suolo e il clima, in realtà, già per se stessi favorivano nel Mezzogiorno la coltura dei grani duri. E qui, di nuovo, i due secoli del dominio spagnolo – con la rinnovata estensione dell’economia latifondistica e del sistema agrario “a campi ed erba” a scapito del sistema stesso del maggese – vennero a favorire ulteriormente la coltura dei più rustici grani duri a scapito di quella dei grani teneri, il cui prezzo salì a quote persino superiori a quelle pagate per i grani duri stessi. Sicché, fin dal secolo XVII, le saragolle di Puglia, o altri grani duri siciliani, divengono la materia prima reputata indispensabile per una produzione industriale delle paste.